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Nasrin Sotoudeh è certamente un simbolo, ma non è l’unica donna in carcere in Iran. Tra le tante oppositrici che hanno combattuto il regime, moltiplicatesi dopo la morte di Mahsa Amini - la 22enne massacrata di botte dalla polizia morale per un ciocca che le usciva dal velo -, c’è anche Narges Mohammadi, giornalista 51enne, vincitrice del Premio Nobel per la pace e attivista per i diritti delle donne in carcere.
Arrestata 13 volte, condannata cinque volte per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate, Mohammadi è diventata il simbolo del movimento “Donna, vita, libertà”. Un movimento che ha fatto il giro del mondo e ha spinto molte donne a filmarsi nell’atto di tagliare simbolicamente un ciocca di capelli, per dichiarare solidarietà ma anche la propria sfida alle autorità iraniane. La cui risposta è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. E sono stati migliaia gli arresti illegali - oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione.
Mohammadi è tra le donne alle quali il regime vuole chiudere la bocca. Ma il suo dissenso, la sua lotta contro il velo obbligatorio, non accennano ad arrestarsi. Tanto da essere disposta a rinunciare alle cure, come spiega il blog francese “Lettres de Teheran”: per la seconda volta in 15 giorni, infatti, autorità della prigione di Evin hanno annullato il suo trasferimento in ospedale per esami cardiologici urgenti. «In onore del sangue versato dalle donne del mio Paese che hanno perso la vita sotto il giogo del regime religioso misogino - ha dichiarato -, non farò un passo indietro».
L’attivista, nei giorni scorsi, ha scritto un messaggio dal carcere di Teheran, reso pubblico dalla figlia Kiana Rahmani e pubblicato sul sito ufficiale del Nobel. Mohammadi, premiata all’inizio di ottobre «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran», ha criticato ancora una volta l’obbligo per le donne in Iran di indossare il velo e ha denunciato le autorità iraniane. «L’hijab obbligatorio è un mezzo di controllo e di repressione imposto alla società e da cui dipende la continuazione e la sopravvivenza di questo regime religioso autoritario», ha dichiarato attraverso la figlia 17enne, rifugiata in Francia insieme al resto della famiglia.
Nella sua lettera, Mohammadi ha condannato «un regime che ha istituzionalizzato la privazione e la povertà nella società per 45 anni», un regime «costruito su bugie, inganno, astuzia e intimidazione». Come popolo iraniano, ha aggiunto l’attivista, «chiediamo democrazia, libertà, diritti umani e uguaglianza, e la Repubblica islamica è il principale ostacolo sulla via della realizzazione di queste richieste nazionali. Noi stiamo lottando per allontanarci da questo regime autoritario religioso attraverso la solidarietà e attingendo alla forza di un processo non violento e inarrestabile per ravvivare l'onore e l'orgoglio dell'Iran, la dignità umana e il prestigio del suo popolo». Un messaggio denso e potente, come la sua conclusione: «La vittoria non è facile - ha sottolineato -, ma è certa».
Quella contro l’hijab obbligatorio è una battaglia che Mohammadi conduce da sempre. Arrestata nel 2010 insieme ad altri attivisti, nel 2011 è stata condannata a 11 anni di carcere per aver “cospirato contro la sicurezza nazionale”. L’anno successivo, dopo una paralisi muscolare, è stata rilasciata per problemi di salute: l’attivista soffre di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni, paralisi parziale temporanea e un’embolia polmonare.
Nel maggio 2015 è stata nuovamente imprigionata a Evin, dove è rimasta fino a dicembre 2019, quando è stata trasferita nella prigione di Zanjan, a circa 300 chilometri da Teheran, dopo aver organizzato proteste contro le condizioni carcerarie e l’uccisione di centinaia di manifestanti nel cosiddetto “novembre di sangue” del 2019.
Nel 2021, insieme ad altri 85 attivisti ha avviato una campagna chiamata “White Torture” contro l’uso dell’isolamento nelle carceri iraniane. Il 12 aprile 2022 è dovuta tornare in carcere per scontare l’ennesima condanna a 8 anni. Nell’ottobre del 2022 è stata condannata a 15 mesi di reclusione con l’accusa di “propaganda contro il sistema” per aver espresso il suo sostegno ai manifestanti.