Il Censis ha presentato il suo cinquantacinquesimo rapporto annuale. Ci dice tre cose. Una bella e due brutte. La cosa bella è che in Italia la ripresa c’è: vola l’industria, spalla a spalla con quella tedesca; vola il turismo, numero 1 d’Europa; vola l’export. In questi campi l’Italia del 2017 ha superato i livelli del 2007, cioè del periodo d’oro precedente alla crisi.

Poi viene la notizia negativa, che apparentemente è in contrasto con quella positiva: aumenta, e aumenta in modo esponenziale, la povertà. In particolare la povertà assoluta. Nel nostro paese vivono oltre quattro milioni e settecentomila persone sotto la soglia di povertà. Cioè che non hanno risorse economiche per sopravvivere dignitosamente. Rispetto al 2007 l’aumento della povertà è stato un turbo- aumento: 165 per cento. Vuol dire che i poveri sono più che raddoppiati, quasi triplicati. è un disastro. Naturalmente l’aumento dei poveri in presenza di un aumento del Pil vuol dire anche un aumento dei ricchi. è un effetto della matematica.

La seconda notizia negativa è che lo spirito pubblico italiano del 2017 si alimenta soprattutto di un sentimento: il rancore. Cioè l’odio.

E che questo rancore è alimentato soprattutto dalla sfiducia e dalla paura di prendere iniziative. E la sfiducia, principalmente, è nella politica.

Nell’Italia prima della crisi prevaleva il conflitto. Il conflitto sociale, il conflitto politico. Il conflitto è scomparso ed è stato sostituito dall’odio.

Proviamo a capire quale nesso c’è tra queste tre notizie, che apparentemente contrastano tra loro. E invece sono perfettamente complementari.

L’analisi economica è piuttosto semplice. Della crisi hanno approfittato - come succede quasi sempre nella storia - i ceti più forti, i quali hanno operato bene, hanno ristrutturato le loro finanze e le loro imprese, hanno ottenuto vantaggi dalla riduzione del costo del lavoro, quando è stato necessario hanno ridotto il personale. Di conseguenza gli indici economici sono tutti positivi ma gli indici sociali vanno in rosso. L’Italia diventa un paese con un tasso di disuguaglianza sempre più alto ( nell’Occidente è seconda solo agli Stati Uniti in questa speciale classifica) e questo è un problema politico, non economico. La crisi ha prodotto un paese più ingiusto. Dove i rapporti di forza, sia in termini economici che in termini politici, si sono spostati a favore dei più ricchi e delle grandi imprese.

L’analisi politica è più complicata.

Il Censis ci dice che dalla crisi esce un paese meno sereno e dove il rancore è il sentimento prevalente. Si tratta di capire se il rancore - che poi produce il linguaggio del rancore, o dell’odio, la cultura del rancore, il sistema relazionale del rancore - è una causa della crisi economica o si sovrappone alla crisi.

Probabilmente tutte e due le cose. Il rancore è la risposta più semplice al senso di ingiustizia sociale che si avverte e al quale non si riesce a reagire. L’Italia della prima metà dello scorso decennio era un’Italia dove il conflitto sociale era ancora alto, e il conflitto produceva, seppure in modo contrastato e diseguale, difesa dei diritti, o almeno produceva l’idea che esistesse la possibilità di difendere i diritti. La crisi ha raso al suolo il conflitto sociale, e l’idea che lo sosteneva, seppellendolo sotto la convinzione che la gravità della crisi renda il conflitto un lusso. E così dalla crisi è nato l’odio che ha sostituito il conflitto. Ma questo processo è avvenuto parallelamente a un processo politico più concreto e tangibile. La fine della politica come la intendevamo una volta. E cioè la politica come di rappresentanza degli interessi e delle idee. La politica - inseguita dalla crisi economica, dal prevalere dei grandi potentati economici, dall’azione devastante della magistratura - si è ritirata nelle retrovie, ha deciso di accontentarsi di una attività di piccolo cabotaggio che consiste essenzialmente nella difesa di piccole porzioni di potere. Ha rinunciato a organizzare il conflitto, sia quello sociale, o economico, sia quello delle idee. Ha rinunciato a un compito di guida della società.

In questo modo i partiti e sindacati hanno perso la loro presa sulla società e la loro capacità di dirigere e orientare lo spirito pubblico. E così hanno finito per alimentare quel sentimento di sfiducia nella politica che ormai dilaga nell’opinione pubblica e che è il carburante del risentimento, del rancore, della religione dell’odio.

Chi dovrebbe opporsi a questa tendenza? Naturalmente il compito spetta alle classi dirigenti, intese nel senso più vasto. Ma il problema è proprio quello: in Italia le classi dirigenti, e in modo particolare l’intellettualità, hanno sempre avuto un rapporto di subalternità verso la politica. Talvolta anche dialettico, talvolta molto dignitoso, ma sempre subalterno. L’idea è sempre stata quella che le classi dirigenti possono creare delle idee, ma poi queste devono passare al vaglio della politica e tocca all’organizzazione politica certificare, approvarle, diffonderle.

La crisi della politica ha comportato quasi una scomparsa della classi dirigenti e in particolare dell’intellettualità E questo ha causato il cortocircuito del rapporto tra opinione pubblica e - diciamo così, approssimativa-mente - “Stato”.

Esiste una possibilità di riparare il guasto e eliminare il cortocircuito?

Probabilmente bisogna ripartire dal punto centrale toccato da questo rapporto Censis. E cioè l’aumento del grado di ingiustizia sociale. Per ricreare un circuito virtuoso, di fiducia, di scambio, che è il solo possibile punto di partenza di un risanamento civile, occorre ridurre le diseguaglianze e l’ingiustizia sociale. Questo giornale nelle settimane scorse si è molto occupato del tema dell’equo compenso. Tema posto in modo drammatico dagli avvocati, e sul quale le resistenze sono state fortissime. Magari voi potete avere l’impressione che la battaglia per l’equo compenso possa essere una battaglia corporativa. Non è vero. L’idea dell’equo compenso è un passo piccolo piccolo, forse, ma esattamente nella direzione della rivalutazione del lavoro. In questi anni il lavoro, e la sua retribuzione, era tornato ad essere considerato una variabile dipendente del profitto. Secondo i criteri più antichi del liberismo esasperato. E la dignità del lavoro una variabile dipendente della prosperità del mercato. La battaglia per l’equo compenso, alla quale si sono opposti in molti ( proprio per salvare l’idea di fondo della variabile dipendente, carissima ai mercatisti) ha finalmente rovesciato questo principio. E lo ha fatto sicuramente grazie all’impegno dell’avvocatura - che ha avuto un ruolo inedito nella battaglia politica nazionale - ma anche grazie all’impegno di un pezzo rilevante della politica, che ha scelto, per una volta, la strada della buona politicae non quella del calcolo di potere.

Non voglio certo dire che la vittoria sull’equo compenso risolve il problema dell’ingiustizia sociale. No, però indica una strada, che riguarattività da le professioni, soprattutto, ma più in generale il lavoro autonomo. E che è è comunque la strada giusta per tutti i lavoratori.

Se l’Italia deciderà di iniziare a percorrere questa strada forse sarà possibile tornare a sostituire l’odio con la politica. E verificare nei fatti cos’è la modernità. Altrimenti, qualunque sia il destino della ripresa, il rapporto del Censis 2018 sarà peggiore di quello che ci hanno consegnato ieri.