L’esitazione di Donald Trump ad autorizzare un attacco diretto all’Iran, nonostante l’alleato israeliano spinga per un’azione risolutiva contro il regime di Teheran, affonda le radici in un dissidio profondo e irrisolto all’interno della sua stessa area politica. La galassia MAGA, che lo ha riportato trionfalmente alla Casa Bianca, si sta infatti rivelando tutt’altro che unita di fronte alla prospettiva di un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Il cuore del dissenso? L’anima isolazionista del trumpismo, incarnata da figure come Steve Bannon, Tucker Carlson e buona parte della base populista, che da sempre rifiuta le “guerre infinite” e guarda con sospetto qualsiasi avventura militare all’estero. Trump è dunque al centro di una tensione politica e ideologica. Da una parte i suoi istinti muscolari, la volontà di riaffermare il primato americano, la pressione dell’establishment repubblicano e e dei neoconservatori desiderosi di terminare l’opera di Bush jr.; dall’altra la fedeltà a un principio che lo ha accompagnato fin dalla campagna del 2016: “America First” non può significare “America in guerra”.

Il dilemma si è fatto evidente nei giorni scorsi, quando Trump ha evocato un intervento diretto delle forze armate Usa al fianco di Israele e pretendendo una «resa senza condizioni» da parte di Teheran. Il tono è assertivo, ma la sostanza è prudente. E la prudenza, per Trump, non nasce da dubbi personali, ma dalla necessità di non spaccare la sua base.

Le divisioni sono infatti già esplose. Da un lato i falchi tradizionali come il senatore Lindsey Graham e i commentatori come Sean Hannity e Mark Levin, che premono per un cambio di regime a Teheran e paragonano Khamenei a Hitler negli anni Trenta. Dall’altro, l’ala più ideologica e populista del trumpismo, con Carlson in testa, che attacca senza remore chi chiede l’intervento militare senza nemmeno conoscere la demografia iraniana. «Volete il regime change in un paese di 90 milioni di abitanti? Avete davvero riflettuto sulle conseguenze?», ha chiesto Carlson in diretta sl suo seguitissimo programma su Fox, sferzando il senatore Ted Cruz presente in studio.

Bannon, dal canto suo, ha definito «folle» l’idea di trascinare gli Stati Uniti in una nuova guerra, sottolineando come la società americana non sia disposta ad accettare un’avventura in Medio Oriente. E i sondaggi, anche quelli interni al campo repubblicano, gli danno ragione: solo il 16% degli elettori si dice favorevole a un intervento militare, mentre oltre la metà dei repubblicaniè decisamente contraria. In gioco c’è la tenuta di un fronte politico costruito su un fragile equilibrio tra forza e cautela, sovranismo e pragmatismo.

Il vicepresidente J.D. Vance — considerato l’erede naturale del tycoon — ha scelto una linea di equilibrio: ha difeso la fermezza del presidente sul nucleare, ma ha anche ammonito sul rischio di un «nuovo pantano» come fu l’Iraq negli anni Duemila. E poi c’è il fronte dei servizi, tutt’altro che allineato con la narrativa bellicista. Tulsi Gabbard, direttrice nazionale dell’intelligence, ha testimoniato al Congresso che l’Iran non sta costruendo una bomba atomica e che il programma militare è stato sospeso da anni. Stizzita la replica di Trump: «Non mi interessa cosa ha detto». Un segnale di insofferenza verso gli esperti, coerente con la sua retorica, ma anche un gesto che alimenta l’insicurezza e la sfiducia tra i suoi stessi consiglieri.

Il presidente Usa si trova così in una posizione paradossale: leader che ha fatto del decisionismo la propria cifra, di fronte al conflitto tra Israele e l’Iran rimane sospeso a un bivio. Da un lato cedere alla tentazione di mostrare forza e determinazione anche sullo scenario internazionale; dall’altro non tradire quella parte della sua base che lo ha sostenuto proprio per la promessa di porre fine alle guerre inutili.

Nel 2017 Trump aveva lanciato missili su Damasco per «punire Assad» poi lanciò la “superbomba” Gbu-43 contro i jihadist dell’Isis a Nangarharma in Afghanistan, nel 2020 bombardò l’auto del celebre generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto di Baghdad, uccidendolo. Ma si trattò di fiammate, di iniziative isolate. Tutt’altro conto è impegnare le forze armate americane in una guerra convenzionale contro la repubblica islamica, prospettiva che sta lacerando tutto il suo campo politico. L’esito di questo braccio di ferro non sarà solo una decisione militare: sarà una definizione dell’essenza stessa del trumpismo nel suo secondo mandato.