«Punire i violenti e ristabilire l’ordine», per la prima volta la Cina ha fatto sentire la sua voce in maniera ufficiale riguardo le proteste che da otto settimane coinvolgono centinaia di migliaia di persone ad Hong Kong.

Ottavo fine settimana di protesta Tra sabato e domenica una manifestazione si è tenuta nella zona di Yuen Long, dove la scorsa settimana un misterioso gruppo di uomini vestiti di bianco aveva attaccato i manifestanti nella metropolitana, e anche questa volta si è ripetuto il copione di scontri e intervento della polizia con cariche e lacrimogeni.

Una situazione che non sembra  volersi tranquillizzare e sulla quale è intervenuto l’ufficio di collegamento di Pechino.

Intervento cinese Nel corso di una conferenza stampa, la prima da quando è iniziata la protesta, il suo portavoce Yang Guang ha espresso una dura condanna contro elementi definiti «radicali» e ribadito l’appoggio alla governatrice Carrie Lam sotto accusa per la durezza della repressione.

I giornali cinesi nei giorni scorsi hanno riversato colonne di piombo contro i manifestanti non nascondendo la necessità dell’intervento dell’esercito, praticamente la fine dell’accordo sintetizzato dalla locuzione “un paese, due sistemi” in vigore da quando, nel 1997, Hong Kong è ritornata sotto la sovranità di Pechino.

La Costituzione di Hong Kong Un intervento militare potrebbe verificarsi solo qualora il governo locale facesse appello alla “basic law”, la carta costituzionale, che all’articolo 14 prevede la richiesta di un intervento di truppe.

In questo senso però Yang Guang ha escluso qualsiasi deragliamento dallo “status quo” e dall’attuale stato di diritto. Piuttosto l’intento cinese è quello di puntare sui danni che provocherebbe una protesta dilatata nel tempo.

Per Pechino le rivendicazioni sono andate «molto oltre gli scopi pacifici» danneggiando «la prosperità e la stabilità di Hong Kong» e «affliggendo le persone che hanno a cuore la città».

Economia a rischio La “città stato” è un’entità essenzialmente commerciale e soprattutto una comunità di affari rivolta al mondo.

Diversi distretti periferici ed agricoli sono in maggioranza filo- cinesi e con Pechino mantengono strettissimi rapporti economici. In queste zone le manifestazioni non sono viste di buon occhio.

Accuse agli Usa Ma la stessa preoccupazione è stata espressa anche dalla Camera di commercio statunitense anche se, a differenza dei cinesi, ha chiesto che vengano ascoltate le richieste del movimento di protesta.

Per questo il portavoce dell’ufficio di collegamento è ritornato sulle cosiddette «interferenze straniere», messaggio lanciato direttamente alla Casa Bianca già accusata di fomentare i disordini fin dall’inizio del movimento contro la legge sull’estradizione, poi ritirata.