In tutto il Mali ci sono appena 45 posti letto in terapia intensiva, in Burkina Faso scendono a 15, nella Repubblica del Congo sono pochi di più. Numeri sconsolanti, che rendono queste nazioni del tutto indifese di fronte a una pandemia virulenta come quella del Covid- 19, che dallo scorso febbraio sta flagellando il pianeta.

Quando lo scorso febbraio il contagio, partito dalla città cinese di Whuan, ha iniziato a colpire l’Europa, l’Oms ha lanciato un drammatico allarme, invitando a «prepararsi al peggio» e a un’apocalittica «bomba epidemica» pronta a esplodere nel continente africano.

A tre mesi di distanza quella bomba non è mai esplosa; se il coronavirus ha avuto una diffusione significativa ( ma non gravissima) in Maghreb e Africa del nord, le nazioni subsahariane sono state risparmiate o comunque toccate in modo lieve.

Come è stato possibile? Ci sono senza dubbio motivi endemici che spiegano la limitata diffusione del Covid- 19. In primo luogo il clima caldo e secco della fascia subsahariana limita la persistenza del virus en l’air. Inoltre l’età media molto bassa della popolazione riduce il tasso di mortalità generale causata dalle infezioni respiratorie, molto più severe quando attaccano gli anziani.

Ma in questo caso stiamo parlando degli effetti veri e propri della malattia quando in realtà è il numero complessivo di persone contagiate, il denominatore, che è rimasto sotto la soglia di allarme. Un fenomeno che tutti gli epidemiologi legano allo scarso sviluppo industriale del continente, alla bassa densità abitativa di molte regioni, alla ridotta interconnessione tra gli abitanti, agli effetti minori della globalizzazione ( il numero di persone che viaggiano in aereo è modesto rispetto all’Europa, agli Stati Uniti e alla stessa Asia).

Si è ipotizzato che le cifre siano falsate dai pochi tamponi effettuati, ma, come fa notare Philippe Le Vaillant, responsabile di Medici senza frontiere in Senegal, i pochi ospedali presenti sul territorio non sono mai stati presi d’assalto dai malati.

C’è invece un fattore specifico ai paesi dell’Africa centrale che spiega più di ogni considerazione sociologica generale la relativa impermeabilità al virus: l’esperienza acquisita negli anni con il terribile virus Ebola che ha reso i pur fragili governi molto più reattivi rispetto alle epidemie.

La mortalità elevatissima di Ebola ( circa il 60%) ha così stimolato un’estrema vigilanza e una maggiore rapidità di risposta. Paesi come l’Uganda e il Ruanda hanno chiuso gli aeroporti, le scuole e vietato gli assembramenti prima ancora che venisse registrato il primo caso di Sars- cov2, anticipando i protocolli dell’Oms che raccomandano queste misure solo quando il contagio è in fase avanzata. Anche la quarantena per chi proveniva dall’estero è stata messa in atto con largo anticipo.

L’Uganda ha anche realizzato dei tamponi mirati su categorie particolarmente a rischio: circa un migliaio di autisti di tir che lavorano oltre le frontiere sono stati testati ogni giorno per evitare che potessero diventare dei veicoli privilegiati del contagio. Soltanto una dozzina di questi è risultata positiva al Covid- 19 ma in forme lievi ed è stata prontamente isolata.

Così stando ai dati del 20 maggio l’Uganda conta finora zero decessi e pochissimi contagi. Ma probabilmente ciò che ha contribuito in maniera maggiore a proteggere la popolazione sono leitari di base”, una figura di medicina comunitaria che non esiste altrove e che venne istituita durante le successive epidemie di Ebola.

L’ultima nel 2014 aveva ucciso circa 15mila persone nell’Africa occidentale e oggi i sanitari formati all’epoca si dedicano anima e cuore alla battaglia contro il coronavirus. Solo in Sierra Leone sono 15mila i sanitari di base che agiscono sul territorio, non si tratta di veri e propri medici ma di personale con formazione epidemiologica e una conoscenza approfondita delle comunità in cui operano incaricato di tracciare le eventuali aree di contagio per scongiurare i pericolosissimi cluster,

«La lezione di Ebola è stata fondamentale per combattere il Covid- 19, in tutte le epidemie la mobilitazione comunitaria è un aspetto determinante, le famiglie devono ragionare come degli epidemiologi, ma anche gli epidemiologi devono ragionare come delle famiglie», spiega in un articolo pubblicato dal sito African arguments l’antropologo Paul Richards, autore del saggio How a People’s Science Helped End an Epidemic. 

La conoscenza delle dinamiche comunitarie nei villaggin aiuta i sanitari a reperire in fretta i membri colpiti all’interno delle famiglie e a isolarli come anche a stabilire protocolli efficaci di distanziamento sociale.

Naturalmente l’esperienza accumulata in questo decennio è un patrimonio necessario ma non sufficiente per eliminare il rischio di nuove ondate del virus e lo stato pietoso del sistema di sanità pubblica di diversi Paesi e la mancanza di fondi per le campagne di prevenzione è una debolezza strutturale che espone la popolazione qualora dovessero emergere focolai fuori controllo.

Per esempio nella popolosa città di Kano nel nord della Nigeria è appena esploso un focolaio che ha provocato decine di morti.