Piero Graglia, ordinario di Storia delle Relazioni internazionali nell’Università Statale di Milano ed esperto di storia dell’integrazione europea, guarda con grande realismo alle vicende del Medio Oriente. «In merito a quello che succede in un territorio delle dimensioni della Toscana e dell’Umbria messe insieme – dice al Dubbio Graglia - preferiamo rifugiarci nel mantra del “Due popoli, due Stati”, senza renderci conto che questa formula può solo perpetuare il conflitto, non certo risolverlo». L’Occidente, a partire dall’Europa, ha avuto rispetto alle vicende del Medio Oriente un approccio un po’ superficiale e ipocrita, con la tendenza ad autoassolversi. Di qui le grandi difficoltà nel far sentire la propria voce con un contributo concreto per il cessate il fuoco sulla Striscia di Gaza.

Professor Graglia, la storia della Palestina è caratterizzata da soprusi e contraddizioni?

La storia della Palestina è contraddistinta dalla transizione da una difficile convivenza alla negazione dell’altro. Oggi in Israele ci sono componenti della società che si pongono il problema di come convivere con l’elemento arabo. È sempre stato, sin dalla fondazione, il grande problema di Israele: la trappola demografica. Nello stesso tempo questa sensibilità di cercare di capire anche le ragioni dell’elemento arabo-palestinese è soverchiata dall’azione dello Stato e del governo di Israele, che persegue chiaramente modalità meno dialoganti, se vogliamo usare un eufemismo. Quello che succede a Gaza è indicativo, ma anche quello che succede in Cisgiordania è ugualmente preoccupante. Dall’altro lato abbiamo una componente palestinese che, dopo gli accordi di Oslo dell’inizio degli anni ’90, ha abbandonato l’approccio laico di Al-Fatah, dell’Organizzazione della liberazione della Palestina, e si è appiattita su un atteggiamento messianico-religioso, con al centro la necessità di eliminare Israele. Anche se i documenti ufficiali di Hamas non prevedono oggi come priorità l’eliminazione di Israele, la prevedevano al momento della nascita di questo movimento.

Siamo quindi di fronte a due integralismi che si confrontano?

Certo, sono integralismi che non ragionano mai. A me capitò di dire in una nota trasmissione televisiva, pochi mesi dopo l’inizio della mattanza di Gaza, seguita a un’altra mattanza, quella del 7 ottobre 2023, che Hamas era il “miglior nemico possibile” per Netanyahu, perché non concedeva nessun tipo di dialogo e di confronto. Venni attaccato da voci di vario orientamento. In realtà oggi vediamo che l’atteggiamento di Hamas è molto utile a Netanyahu per giustificare qualsiasi azione brutale e violenta, fuori da ogni efficacia anche dal punto di vista militare. Assistiamo alla sproporzionalità della risposta dell’esercito di Israele a Gaza. Entrambi gli attori sotto i riflettori, il governo Netanyahu e Hamas, non rappresentano però l’interezza dei contendenti.

Nelle vicende di questa parte di Medio Oriente, l’Occidente è esente da responsabilità?

Le responsabilità ci sono. Tra il 1995 e il 2002 Israele ha maturato la decisione di costruire una barriera che divide attualmente la Cisgiordania dal territorio di Israele. Si parla di 712 chilometri di muro. Al momento sono stati costruiti 465 chilometri. La cosa più interessante è che questo muro non segue la “Green line”, cioè il confine provvisorio stabilito nel 1949, che è di 320 chilometri. Il muro si insinua all’interno della Cisgiordania facendo un’opera di land grabbing, di espropriazione del territorio. Questa operazione è stata fatta nel silenzio completo dell’Occidente, se ne è parlato poco e si è lasciato che questa costruzione oscena venisse ignorata. Il muro lo abbiamo visto crescere anche con un contributo occidentale fornito a Israele per la costruzione dal punto di vista tecnologico e finanziario. Non possiamo sorprenderci se questa barriera, che era stata motivata con ragioni di lotta e di contrasto al terrorismo, oggi è diventata un elemento politico di divisione e di ulteriore frammentazione del territorio. Tutto è stato fatto con un Occidente che guardava e sapeva più o meno cosa stesse accadendo, e che non ha mai detto nulla. Solo dopo il 2002, quando è cominciata la costruzione effettiva, nel Parlamento europeo c’è stata qualche timida critica. La Corte internazionale di giustizia ha espresso una censura nei confronti del muro. Pure in questo caso senza alcun risultato concreto.

Lei crede nella soluzione “due popoli due Stati”? Lo Stato della Palestina ha diritto a esistere come lo Stato di Israele?

Nessuno Stato ha diritto di esistere. So che può sembrare scandalosa questa affermazione, ma le spiego subito il senso delle mie parole. Il diritto internazionale non prevede un diritto all’esistenza degli Stati. Il diritto internazionale prevede un diritto concesso ai popoli di autodeterminarsi, e gli Stati sono la conseguenza di questo diritto. Quindi, per fare un esempio, la Francia, la Germania, l’Italia esistono perché ci sono. Israele esiste perché c’è. Ma nessuno può dire che Israele o la Francia o gli Stati Uniti abbiano il diritto di esistere. Gli Stati nascono, crescono, scompaiono. La storia del mondo è fatta di questo e nessuno ha mai invocato un diritto di esistere. Ciò che è stato invocato spesso invece è il diritto di difendersi, il diritto di autodeterminarsi. Dunque, uno Stato di Palestina non ha un diritto di esistere, ma il popolo palestinese ha il diritto di definire e di determinare le forme e i modi della sua autorappresentazione. Perché oggi ci vogliamo fossilizzare sull’idea che ciò che può definire l’“ebreitudine” o la “palestinesità” dell’elemento arabo sia solo lo Stato? Perché non pensare alla possibile convivenza in forma federativa, in forma integrata all’interno del territorio, che fu il mandato britannico della Palestina dal 1922 al 1948, tra le due realtà? Questa non è solo un’idea di uno storico italiano delle relazioni internazionali, ma c’è una vasta parte della politica e della società civile israeliana che si pone il problema della convivenza al di là della creazione dello Stato.

Due Stati contrapposti e armati potranno percorrere la strada della pacificazione dell’area?

Io credo che l’idea di creare due Stati sia solo la strada per istituzionalizzare il conflitto. Penso invece che sia utile pensare a una soluzione, molto coraggiosa, di tipo sovranazionale in grado di abbracciare le due entità, le due nazionalità, con pari diritti e riconoscimento al diritto di autodeterminazione degli uni e degli altri. Lo so, è una strada terribilmente difficile, ma che abbiamo percorso noi europei dopo il 1950, creando prima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità economica europea e oggi l’Unione Europea. Non ci siamo anche noi in fondo riconosciuti europei e non più acerrimi nemici dopo la Seconda guerra mondiale? È un processo che si può strutturare, che si può concretizzare. Basta avere la volontà. In fondo, gli accordi di Oslo andavano in questa direzione e avevano alla base due elementi fondamentali: riconoscimento e convivenza.