Nell’arte del gesto di Familie Flöz c’è una pulsazione che restituisce respiro alla fissità della materia e anima la rigidità dei caratteri condensati in una maschera di gomma. Per la prima volta in Italia con Teatro Delusio, a Roma, alla Sala Umberto fino al 17 novembre, la compagnia tedesca disegna uno spettacolo di immagini costruito sulle sue celebri maschere grottesche, con tre attori che fanno per trenta.

Andres Angulo, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk, diretti da Michael Vogel, raccontano la “Delusio”, la delusione, lo scarto tra sogno e realtà di tre tecnici di un teatro.

Bob, Bernd e Ivan sono rappresentati dietro le quinte, dove vedono passare registi, cantanti, attori, dove trascorrono la loro vita di risulta, proiettando i desideri con le loro ombre lunghe su una ribalta di luce apparente. Un burattino che richiama il Bunraku giapponese, con quella docilità frutto della sensibilità di chi lo conduce. Ma poi è il corpo dell’attore, col solo ausilio delle maschere, a prendere la scena, dove tutto diventa manifestazione dell’interiorità, quel che la parola non dice si palesa nei corpi, ora magri e dinoccolati, ora panciuti, ora goffi, ora atletici, sempre innaturali, per questa loro eloquenza visiva. Comico e grottesco, in dialogo armonico, segnano i ritmi della recitazione, giocata sull’iperbole, sul tic, sull’incidente. Ci sono tre interpreti ma anche una cantante lirica capricciosa, un ballerino, un regista, una signora delle pulizie, una danzatrice di cui innamorarsi. Sul retropalco scorre l’amore, l’insoddisfazione, si consumano liti e tenerezze, si capovolgono le parti, il margine diventa centro.

Lo spettatore vive la piccola realtà dei protagonisti dentro a un’atmosfera di favola, a riscoprire le declinazioni del sorriso, le amarezze delicate, la fragilità buona dell’essere, con le sue paure, i suoi appetiti, i suoi entusiasmi. Il gesto involontario con cui rappresentiamo i sentimenti, il piccolo moto d’impazienza, l’alterigia di una schiena inastata, lo sbuffo, il verso, la mossa parlante. Il merito di aver portato in Italia, a Roma, Familie Flöz è di Alessandro Longobardi, un direttore artistico differente, un manager convinto che un teatro sia, pur con tutti i necessari distinguo, anche un’impresa culturale e debba fare, tra le altre, scelte in grado di veicolare contenuti dentro cornici estetiche che avvicinino e richiamino il pubblico. Non diceva il Tasso che fosse necessario porgere al fanciullo malato la medicina in una tazza con gli orli aspersi di “soavi licor” cosicché “succhi amari ingannato intanto ei beve,/ e da l’inganno suo vita riceve”, insomma che bisogna indorar la pillola? Sì, lo diceva.