C’era il rischio di mettere nelle mani dei magistrati scelte che oggi in Italia assumono pochissime persone: il presidente del Consiglio e il ministro della Salute, sentiti gli scienziati. Così sarebbe stato, se non si fosse arrivati alla decisione, maturata prima e durante il Consiglio dei ministri di ieri, di prorogare all’11 maggio il “regime sospeso” della giustizia. Senza il nuovo intervento del governo, dal 16 aprile in poi sui vertici degli uffici giudiziari sarebbe ricaduta la responsabilità di decidere che tipo di cautele assumere per le udienze civili e penali. E così, nel decreto che il Consiglio dei ministri ha approvato, è previsto che la giustizia resti ancora ferma, con tutti i termini sospesi e le udienze rinviate in automatico, con l’eccezione di quelle urgenti. «Una misura assunta, sentiti gli addetti ai lavori, per tutelare la salute di tutti gli utenti della giustizia ed essere pronti a ripartire», ha spiegato il guardasigilli Alfonso Bonafede. Solo dopo l’11 maggio si potrà entrare in quella “fase 2” descritta dai diversi provvedimenti assunti dall’esecutivo durante l’emergenza coronavirus, e confluiti nel precedente Dl Cura Italia. A quel punto dovrebbero essere presidenti di Tribunale e procuratori capo a stabilire, sentiti Consiglio dell’Ordine degli avvocati e autorità sanitarie, se per esempio ci si potrà limitare a ridurre l’apertura degli uffici al pubblico o se si dovrà continuare a rinviare tutto, tranne le urgenze.

L’Anm: non lasciate la responsabilità ai capi degli uffici

Anche dall’avvocatura erano venute sollecitazioni per rendere il futuro prossimo della giustizia coerente con quanto prescritto per ogni altro aspetto della vita sociale, dalle scuole all’impresa. Ma sul nuovo congelamento delle attività giudiziarie ha pesato la posizione assunta poche ore prima dall’Anm: che già domenica, in una nota della propria giunta, aveva chiesto di garantire appunto «una disciplina uniforme sul territorio nazionale, dettata per legge e non rimessa ai provvedimenti dei dirigenti dei singoli uffici». Secondo il sindacato dei magistrati bisognerebbe definire in modo meno flessibile anche il regime successivo, previsto dall’11 maggio fino al 30 giugno (almeno per ora). Così come l’Anm aveva definito «indispensabile» individuare «le soluzioni tecnologiche più idonee e praticabili concretamente per celebrare i processi in via telematica».

Camere di consiglio “smart”: no dell’Unione Camere penali

Ora, è chiaro che il ricorso alla giustizia digitale è l’altra faccia della medaglia, nel regime della sospensione anti-contagio. Ma qui a segnalarne gli aspetti più problematici sono gli avvocati prima ancora dei magistrati. A pesare sono innanzitutto gli emendamenti presentati dal governo sulla legge di conversione del decreto “Cura Italia”, dove resta regolata l’impalcatura della nuova giustizia d’emergenza. Il provvedimento è all’esame di Palazzo Madama e potrebbe approdare in aula domani. Tra i vari interventi, uno su tutti solleva l’allarme dell’Unione Camere penali, che ieri ha diffuso un dettagliatissimo dossier sulle modifiche in arrivo: si tratta della possibilità di «svolgere da remoto» anche «le camere di consiglio». Intanto, è evidente come tale regime riguarderebbe anche quei processi «la cui trattazione sarà disposta dai capi degli uffici: in definitiva la facoltà potrà essere esercitata per tutti i processi previsti nel periodo emergenziale». E si tratta, secondo l’Ucpi, «di una totale violazione dei principi irrinunciabili che sovraintendono alla deliberazione della sentenza, compreso quello della segretezza della camera di consiglio». Una scelta, denunciano gli avvocati, «che potrebbe produrre conseguenze devastanti». Anche considerato che «troverebbe applicazione generalizzata, e quindi anche nei processi per i reati più gravi e tra questi quelli di competenza della Corte di Assise composta, peraltro, anche da giudici non togati». Emerge «in tutta la sua drammatica evidenza», per l’Ucpi, «l’assenza di garanzie non solo in ordine alla segretezza ma anche alla impermeabilità ai condizionamenti esterni di coloro che sono chiamati a giudicare». Un effetto collaterale che rischia di essere pericolosamente sottovalutato.