L’operazione che Giorgia Meloni sta tentando, sinora con successo ma la strada di fronte a lei è ancora lunga, mira a produrre una frattura radicale nel percorso della destra italiana ma con ricadute destinate a incidere a fondo sull'intero sistema politico italiano. Si tratta, in due parole, della liquidazione finale del berlusconismo. Il braccio di ferro sulle poltrone ministeriali va inteso in questo senso e da diversi punti di vista che, sommati, compongono un quadro omogeneo, la fine appunto del berlusconismo.

Prima di tutto, naturalmente, lo smantellamento passa per la figura stessa di Silvio Berlusconi, rimasto il sovrano, sia pure senza più l'esercito di un tempo e senza veri poteri anche dopo il declino dell'armata azzurra. Da questo punto di vista la decisione di incontrare il cavaliere, dopo lo scontro della settimana scorsa, nella sede di FdI invece che a Villa Grande o in Parlamento non è solo coreografia. Si è trattato a tutti gli effetti di un passaggio di consegne, e questa era del resto l'intenzione della leader. Molto più che non una "andata a Canossa" l'incontro in via della Scrofa doveva mettere plasticamente in scena il passaggio dello scettro dalle mani dell'uomo che aveva dominato la destra italiana per quasi tre decenni a quelle della sua ex ministra.

La rottura che Meloni cerca però è più profonda. L'impuntatura sul nome dei ministri, non ancora risolta perché resta aggrovigliato il nodo principale, quello della Giustizia, deriva solo in parte dalla necessità di evitare frizioni con il presidente della Repubblica e anzi, al contrario, di adoperare la lista dei ministri come biglietto da visita capace di garantire subito sullo stile che la nuova premier intende adottare. L'elemento è reale e fa parte di quel doppio binario sul quale la leader di FdI intende marciare: da un lato conferma dell'identità, con mosse come la scelta dei presidenti delle Camere, ma dall'altro edificazione di rapporti di fiducia solidi con le istituzioni italiane ed europee. Dunque prima di tutto col Colle.

Ma la questione Mattarella, pur reale, ne copre un'altra ben più profonda. Giorgia Meloni vuole che il suo governo appaia da subito come una cesura con il passato, non solo quello recente delle ultime due legislature ma anche il ventennio berlusconiano. Quell'epoca è stata segnata dalle ombre del conflitto di interessi, anzi dei conflitti di interesse: sul fronte della Giustizia e su quello delle tv. La scelta di evitare ogni sospetto del genere per quanto riguarda sia il ministero di via Arenula che il Mise, con le telecomunicazioni annesse, sia sul sottosegretariato con delega all'editoria è una pietra tombale su una destra indelebilmente marchiata dagli interessi di Berlusconi. Infine c'è una questione di stile, dovuta anche alla diversità di carattere tra il leader al tramonto e quella in ascesa.

Lo stile del Cavaliere era a modo suo unico: più che un leader Berlusconi si sentiva e si comportava come un sovrano. Tuttavia, nei rapporti con gli alleati e nella pratica di governo, non faceva pesare troppo il suo comando, purché non fosse minimamente messo in dubbio il suo primato. Il modello di guida del governo che ha in mente Giorgia Meloni è molto diverso, in parte anche perché molto diversi sono i tempi: più che a Berlusconi guarda a Draghi, intende il ruolo di primo ministro in senso fortemente decisionista, come il capo a tutti gli effetti del governo e non solo il capitano di una squadra.

Quella di Giorgia Meloni è una sfida ambiziosa ma in una certa misura anche obbligata. Quello del berlusconismo è stato un tramonto lunghissimo ma inesorabile e negli ultimi anni privo di sostituzione con una modello nuovo di destra: di fatto ha campeggiato il vuoto. Il rischio è che la nuova sovrana si faccia prendere la mano e indirizzi la destra verso l'orizzonte che ha in mente senza la dovuta diplomazia, anche perché nei suoi irrigidimenti trapela spesso una componente di insicurezza più che di forza. Sostituire il berlusconismo in una destra che è comunque una coalizione è una missione delicata e il disastro fiorato la settimana scorsa prova quanto sia facile sfasciare tutto invece di edificare un nuovo polo di centrodestra.