Dai microfoni di Radio-Télévision Milles Collines (RTLM) l’odio viaggia in modulazione di frequenza, scivola via tra una canzone e l’altra, boccali di birra, sigarette, risate grasse accompagnate dai ritmi ipnotici della rumba congolese e della dance zairese, tutto avviene in un’atmosfera allegra e conviviale.

Con il suo stile scamiciato, l’emittente è amatissima dai giovani ed è un’alternativa all’ingessata Radio Rwanda, voce ufficiale del governo. A RTLM ci si può spingere oltre, si possono rompere gli schemi, portare all’estremo la propaganda dell’Hutu power, invitando gli ascoltatori a «fare giustizia», magari alla fine di una barzelletta e con tono festoso: «Le tombe sono ancora mezze vuote, bisogna riempirle tutte, fate buon lavoro! ». Stacco musicale, altre risate e altro messaggio: «Dai, schiacciateli tutti come scarafaggi».

In quella buia primavera del 1994 l’artista più in voga nelle playlist di RTLM è Simon Bikindi, lo chiamano il Michael Jackson del Ruanda, e i suoi brani tutti in lingua kinyarwanda sono stati la macabra colonna sonora del genocidio, cantati a squarciagola dagli squadroni della morte durante la mattanza: in Bene Sebahinzi incita gli hutu a vendicarsi dei «discendenti dei coltivatori etiopi», ossia gli odiati tutsi, in Nanga Abahutu se la prende con gli hutu moderati che si sono mischiati con il nemico: «Siete degli imbecilli ciechi» e via discorrendo. Ma la star della radio è senza alcun dubbio Valérie Bemeriki una speaker animata da ferocia e fervore, la “voce della morte” nei racconti dei sopravvissuti; quando Bemeriki prende in mano il microfono sfumano le danze e il clima si fa improvvisamente più grave: «I tutsi sono il cancro del Ruanda, bisogna sradicarli!». In che modo?

Ci sono i mitra e i fucili d’assalto, ma l’arma preferita, il lugubre emblema della carneficina ruandese è il machete di cui Bemeriki è grande fan: «Perché sprecare una pallottola, facciamoli a fette!» Non manca in lei l’ispirazione religiosa con cui giustifica ogni atrocità: «Dobbiamo eliminarli tutti, la Vergine Maria è dalla nostra parte!».

Condannata all’ergastolo nel dicembre 2009 per “panificazione del genocidio”, si è dichiarata colpevole dicendosi pentita: «All’epoca non consideravo i tutsi come delle persone, li vedevo come animali selvaggi». Tra gli azionisti di RTLM ci sono imprenditori vicini al presidente Juvénal Habyarimana, il più noto è Félicien Kabuga, il “tesoriere del genocidio” abile raccoglitore di finanziamenti all’estero, in particolare quelli della Konrad- Adenauer Fondation, un think tank legato alla Cdu tedesca. Fanno tutti parte dell’Akazu, un gruppo ultra-radicale guidato da Agathe Habyarimana, la controversa moglie del presidente.

La scintilla che ha innescato la follia genocida il 6 aprile 1994: il Falcon 50 che trasporta il presidente Habyarimana e l’omologo del Burundi Cyprien Ntaryamira viene abbattuto da due missili terra-aria lanciati dalle colline Masaka mentre era in fase d’atterraggio, schiantandosi a pochi chilometri dall’aeroporto di Kigali. I membri del governo, quasi tutti di etnia hutu, non dubitano un secondo sulla paternità dell’attentato: sono stati i tutsi, bisogna vendicarsi e bisogna farlo subito. A trent’anni dai fatti nessuno è mai riuscito a individuare gli autori anche se molti hanno indicato la stessa Agathe Habyarimana; il classico “auto-attentato” che funge da pretesto per scatenare la rappresaglia, ma tra mezze verità e teorie del complotto il mistero resta ancora oggi irrisolto. Di sicuro dalle frequenze di RTLM la settimana che precede l’attacco all’aereo presidenziale qualche speaker evoca «qualcosa di grosso» che dovrebbe succedere «intorno al 4 o 5 aprile». Si sono sbagliati di appena 24 ore.

In soli cento giorni tra gli 800mila e il milione di tutsi e hutu moderati vengono letteralmente fatti a pezzi, nove omicidi al secondo, i più fortunati possono pagare per venire freddati da un colpo di rivoltella invece di subire lo strazio della mannaia, quasi due milioni trovano rifugio nel vicino Zaire, molti sfollati non riescono a evitare le migliaia di posti di blocco delle milizie hutu. Una follia collettiva che si consuma sotto gli occhi della comunità internazionale e con i caschi blu dell’Onu in fuga dal Paese; sono scappati via due settimane dopo l’esplosione delle violenze, lasciando completamente il campo libero agli Interahamwe, gli squadroni della morte. D’altra parte le posizioni dei leader occidentali, dal francese Mitterrand all’americano Bill Clinton sono molto chiare: si tratta di un conflitto inter-etnico e non bisogna immischiarsi.

Una buona parte dei massacri viene compiuta dalle milizie paramilitari, ma partecipano anche migliaia di “cittadini comuni” armati di armi improvvisate, attrezzi agricoli, roncole, coltelli da cucina e l’onnipresente machete, fomentati dalla propaganda dell’Hutu power che indica i tutsi come i “prescelti” dagli antichi colonizzatori tedeschi e poi belgi per via dei loro corpi affusolati, i nasi stretti e i volti allungati, collaborazionisti nel Dna. Stereotipi vecchi di un secolo che non corrispondono più alla realtà del Ruanda ma riesumati ad arte per sobillare il popolo. RTLM diffonde infinite liste di nomi, di indirizzi e di nascondigli, sono gli obiettivi da colpire, c’è chi viene freddato sul posto, altri vengono raggruppati come bestiame all’interno degli stadi, delle chiese, delle scuole, delle caserme e poi fatti fuori, nessuno escluso, donne incinte, bambini, anziani.

II Consiglio di sicurezza dell’Onu riconosce le gravi responsabilità della comunità internazionale, estendendo e rinforzando la missione militare UNAMIR presente nella regione da oltre un anno, 5500 soldati in più, che però giungono in Ruanda quando le violenze sono già terminate: il 17 luglio il genocidio è già finito, le truppe tutsi del Fronte patriottico ruandese (FPR), armate anche dall’Uganda marciano vittoriose su Kigali, rovesciano l’esecutivo e poche settimane dopo viene instaurato un governo di unità nazionale seguito da un laborioso quanto inevitabile processo di riconciliazione nazionale.