PHOTO
EMMANUEL MACRON PRESIDENTE FRANCIA
Nel lessico della Quinta repubblica il primo ministro è chiamato il “fusibile” perché appena c’è aria di crisi è lui il primo a saltare. Nel corso della presidenza Macron si sono succeduti in sei sulla traballante poltrona di Matignon e l’ultimo in ordine di apparizione, Francois Bayrou, sembra avere le ore contate. L’ 8 settembre l’Assemblea nazionale voterà infatti la fiducia sul piano di austerity e il governo non ha i numeri: oltre all’estrema destra di Marine Le Pen e alla gauche di Jean Luc Mélenchon, anche i socialisti e gli ecologisti hanno annunciato il voto contrario. Solo un miracolo potrebbe ormai salvare l’esecutivo.
Il destino del governo è però solo la punta dell’iceberg: la Francia è attraversata da una crisi economica e sociale che da anni corrode la fiducia nelle istituzioni e verso le forze politiche. Il debito pubblico ha raggiunto livelli record, il deficit è tra i più elevati della zona euro, la crescita è stagnante, l’inflazione pesa sulle famiglie e il malessere collettivo si manifesta ciclicamente nelle piazze. Le proteste contro la riforma delle pensioni del 2023 e, ancor prima, l’esplosione del movimento dei gilet gialli nel 2018 hanno segnato una frattura profonda tra potere centrale e società. Quella ferita non si è mai richiusa: al contrario, il senso di esclusione e di marginalizzazione delle periferie e dei ceti medi impoveriti è cresciuto, trasfor-mandosi in diffidenza generalizzata verso chiunque governa.
In questo contesto, il ricorso a nuove misure di austerità da parte di Bayrou ha fatto da detonatore. Riduzioni della spesa pubblica, tagli ai sussidi e un aumento delle imposte indirette, insomma la classica ricetta liberale, hanno innescato un effetto valanga. Se i partiti in assemblea sono sul piede di guerra, i sindacati hanno convocato uno sciopero generale per il 10 settembre, due giorni dopo il voto di fiducia, con l’obiettivo di paralizzare trasporti, scuole, ospedali e servizi essenziali, e di dare una spallata al “macronismo” come vorrebbe il leader della France Insoumise Jean- Luc Mélenchon che chiede nuove elezioni e addirittura le dimissioni del presidente.
Sei primi ministri bruciati in pochi anni non sono solo la conseguenza di una congiuntura difficile, ma il sintomo di un meccanismo istituzionale che non regge più l’urto delle crisi. La presidenza Macron si trova prigioniera di un paradosso: dispone ancora di una legittimità internazionale, ma non riesce a consolidare un consenso interno stabile. E in parte è colpa sua: la dissoluzione del 2024 che per l’Eliseo avrebbe dovuto portare chiarezza ha prodotto al contrario un quadro politico ancora più instabile con un’Assemblea nazionale frammentata in blocchi inconciliabili: i centristi in perenne affanno per tenere in piedi una maggioranza raccogliticcia, l’estrema destra in ascesa e una sinistra numerosa ma lacerata da conflitti interni che non è mai stata in grado di incarnare una preposta di governo.
Le conseguenze della crisi si faranno presto sentire oltre i confini nazionali. Senza una Francia stabile, l’Unione è necessariamente indebolite: la Germania, già frenata dalla recessione e dalle difficoltà nella transizione energetica, non può supplire da sola alla mancanza dell’altro motore storico della locomotiva europea. I dossier strategici si accumulano: la difesa comune, la politica industriale, la gestione del bilancio comunitario. In ognuno di questi campi l’inerzia di Parigi blocca l’avanzata europea, lasciando spazio alle divisioni interne e alle pressioni esterne.
I mercati hanno già iniziato a esprimere nervosismo. Lo spread tra i titoli francesi e quelli tedeschi è salito ai livelli più alti dal 2012 e le agenzie di rating minacciano un declassamento. Un’eventualità che avrebbe effetti immediati sull’eurozona, riducendo i margini di manovra della Banca centrale europea e inasprendo la diffidenza tra Paesi del Nord e Paesi del Sud. Per la seconda economia dell’Unione, tradizionale punto di equilibrio, sarebbe un colpo durissimo.
Macron continua a insistere sulla scena internazionale con il suo attivismo: dalla proposta di un esercito europeo alle iniziative diplomatiche nel Mediterraneo e in Africa, risultando peraltro l’unico leader capace di replicare a muso duro al bullismo planetario di Donald Trumpo e Vladimir Putin. Ma la distanza tra la proiezione esterna e la fragilità interna diventa ogni giorno più marcata. I suoi detrattori parlano di un presidente “sconnesso dal Paese”, “lontano dalla realtà” e concentrato sul lustro delle iniziative interazionali più che sui problemi quotidiani dei francesi.
Se il governo cadrà l’ 8 settembre e se la mobilitazione del 10 confermerà la forza delle piazze, Macron dovrà decidere se trovare un’altra (improbabile) maggioranza o convocare nuove elezioni (escluse le dimissioni), le terze del suo secondo mandato. Di certo la Quinta repubblica non sembra più in grado di assorbire gli urti della società e la frantumazione del quadro politico francese e questa, per la fragile Europa, non è una buona notizia.