«Le prigioni non dovrebbero essere come le porte dell’inferno, dove si avvererebbero le parole di Dante: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Così hanno scritto i giudici della Corte europea dei diritti umani ( Cedu) nella sentenza del 18 marzo 2014 per il caso Ocalan ( leader curdo del Pkk) contro la Turchia, condannando lo Stato di Erdogan per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, dal momento che la legge turca «non prevede, dopo un certo periodo di detenzione, alcun meccanismo di riesame della pena all’ergastolo comminata per reati come quelli commessi da Ocalan, allo scopo di valutare se continuano a sussistere motivi legittimi per tenere la persona in carcere». Parliamo della stessa identica sentenza riguardante il caso Viola che ha condannato definitivamente l’Italia, perché – come stabilisce l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario prevede che la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale sia subordinata alla collaborazione con la giustizia.

ANCHE A ISTANBUL C’È QUELLO AGGRAVATO

Per quanto riguarda la Turchia, l’articolo 107 della legge n. 5275 sull’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza prevede la possibilità della libertà condizionale, su riserva di buona condotta, per le persone condannate alla pena della reclusione ( severa) a vita dopo un periodo minimo di detenzione di trent’anni, per i condannati alla pena della reclusione a vita ( ordinaria) dopo un periodo minimo di detenzione di ventiquattro anni e per gli alti condannati dopo aver scontato un periodo pari ai due terzi della loro pena detentiva.

Tuttavia, sempre secondo la medesima disposizione, i condannati alla pena della reclusione a vita aggravata per dei reati contro la sicurezza dello Stato, contro l’ordine costituzionale e contro la difesa nazionale ( quindi come il caso di Ocalan) commessi in gruppi organizzati all’estero non possono essere ammessi al beneficio della libertà condizionale. In sostanza anche la Turchia, come il nostro Paese, ha due forme di ergastolo: uno “ordinario” e l’altro “aggravato” ( in Italia viene definito “ostativo”).

IL PKK È ORMAI UN PARTITO ILLEGALE

Da ricordare che Ocalan aveva fondato nel 1978 il Partito dei lavoratori del Kurdistan, meglio conosciuto con il nome di Pkk, che per anni ha combattuto per il riconoscimento di una propria etnia.

Il Pkk è ancora una realtà presente nel sud- est della Turchia benché sia considerato un partito illegale. Inizialmente era un gruppo che s’ispirava al marxismo- leninismo, rivendicando ( insieme ad altri partiti tra cui il Pyax, il Pyd, e il Kpd) la fondazione di uno stato indipendente nella regione storico- linguistica del Kurdistan. Il Pkk, però, al fine delle sue rivendicazioni, utilizzava metodi violenti ricorrendo spesso al conflitto armato, ricorrendo anche all’uso di attentati dinamitardi e kamikaze contro obiettivi militari turchi, ritenuti oppressori del popolo curdo.

QUANDO OCALAN ARRIVÒ A ROMA

Come sappiamo giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista. Il leader del Pkk si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere entro qualche giorno asilo politico. Questa sua richiesta provocò un dibattito sull’opportunità di accettare tale richiesta. Alla fine – ricordiamo che c’era il governo D’Alema venne espulso in Kenia, dove poi le forze di intelligence lo presero e riportato in Turchia. In seguito la pena di morte gli verrà commutata in ergastolo a vita. D’altro canto la Cedu ha voluto esprimere concetti che poi ribadirà anche nei confronti del nostro Paese. «Le difficoltà – hanno scritto i giudici di Strasburgo - che gli Stati si trovano a dover affrontare nella nostra epoca per proteggere le loro popolazioni dalla violenza terrorista sono reali. Tuttavia – hanno sottolineato -, l’articolo 3 non prevede alcuna limitazione, non consente alcuna deroga, neppure in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione». Un concetto che i giudici hanno dovuto cristallizzare nella sentenza, perché il governo turco ha difeso la legittimità dell’ergastolo a vita, spiegando che Ocalan si era reso responsabile di una campagna di violenza che la sua ex- organizzazione ha condotto e che ha costato la vita a migliaia di persone, tra cui numerose vittime civili innocenti.

DECIDERÀ SEMPRE UN GIUDICE

La Cedu ha ben spiegato che «nessun problema si pone rispetto all’articolo 3 se, ad esempio, un condannato all’ergastolo che, in base alla legge nazionale, può in teoria ottenere la liberazione, richiede di essere liberato ma si vede rifiutata la richiesta per il fatto che egli continua a rappresentare un pericolo per la società». In sintesi, è esattamente lo stesso concetto espresso per quanto riguarda la sentenza di condanna nei confronti dell’Italia. Non si tratta di alcun automatismo, ma la concessione all’ergastolano di poter chiedere la liberazione condizionale dopo un numero congruo di anni di detenzione: sarà sempre un giudice a valutare se concedergliela o meno. La Cedu ha citato anche una sentenza della Corte costituzionale tedesca su un caso relativo alla reclusione a vita, la quale ha sottolineato che la pena perpetua «sarebbe incompatibile con la disposizione della Legge fondamentale che consacra la dignità umana che, coercitivamente, lo Stato privi una persona della propria libertà senza dargli almeno una possibilità di poterla un giorno recuperare».