A dieci dal colpo di Stato che rovesciò il governo islamista di Mohammed Morsi, primo capo di Stato eletto a suffragio universale, il maresciallo Abdel Fatah al- Sisi ha spazzato via ogni forma di dissenso politico, diventando il padre- padrone dell’Egitto: nessuno può dubitare che il vincitore delle presidenziali di domenica sarà ancora lui.

L’opposizione è infatti praticamente scomparsa; né Abdel Sanad Yamama, leader del Partito Egiziano della Delegazione ( Wafd), né il socialdemocratico Farid Zahran e ancor meno il repubblicano Hazem Omar sono in grado di impensierire il sistema al- Sisi. Gli ultimi due candidati, poi, hanno già collaborato con la giunta militare del Cairo e, tanto per fugare ogni dubbio, si dicono pronti a farlo anche nel futuro. Il presidente egiziano si appresta dunque a ottenere il terzo mandato consecutivo e con ogni probabilità replicherà le cifre “bulgare” delle elezioni del 2014 e del 2018, stravinte con oltre il 96% dei voti.

Guiderà il più popoloso paese del mondo arabo fino al 2030, visto che nel 2019 ha modificato la Costituzione, abolendo il limite dei due mandati ed estendendone la durata da quattro a sei anni. In questo decennio di potere assoluto al- Sisi si è macchiato di atroci violazioni dei diritti umani, in special modo nei confronti dei Fratelli musulmani vittime di una feroce e capillare repressione politica, con processi collettivi e sentenze farsa.

Come denuncia l’ong statunitense Human Right Watch, sotto il suo governo l’Egitto ha raggiunto livelli di brutalità senza precedenti, con almeno 60mila persone arrestate per reati di opinione o per motivi politici, con l’uso sistematico della tortura da parte delle forze di sicurezza per estorcere confessioni o semplicemente per infierire contro oppositori e dissidenti. «Crimini contro l’umanità», tuona Human Right Watch, biasimando l’indifferenza della comunità internazionale (e cioè dell’Occidente) disposta a chiudere non uno ma entrambi gli occhi sulla violenza di Stato. D’altra parte al- Sisi ha saputo vendersi come un paladino della lotta al terrorismo jihadista che combatte attivamente nella turbolenta penisola del Sinai, consolidando il ruolo dell’Egitto come mediatore e intermediario strategico nel conflitto israelo- palestinese. Dopo i pogrom di Hamas del 7 ottobre e la rappresaglia israeliana a Gaza la centralità dell’Egitto è ulteriormente aumentata: è attraverso il valico di Rafah, controllato dal Cairo, che transitano gli aiuti umanitari per la popolazione della Striscia ed è sempre al Cairo che sono giunti gli ostaggi israeliani liberati durante la tregua.

Così come Mubarak per oltre un ventennio anche al- Sisi è diventato una figura imprescindibile per gli alleati occidentali: «Chi siamo noi per dare lezioni di democrazia all’Egitto?», disse il presidente francese Macron nel 2017, una dichiarazione emblematica. Come lo fu l’endorsment di Donald Trump l’anno precedente che si complimentò con il collega per «il magnifico lavoro svolto». Più tiepido Joe Biden, che nel 2022 ha timidamente chiesto al Cairo di alleggerire la stretta sui diritti umani congelando provvisoriamente un fondo di 130 milioni destinati alla sicurezza del paese arabo.

Vicino alla Russia di Vladimir Putin, al- Sisi è sostenuto dall’Arabia Saudita con gigantesche trasfusioni di petrodollari che ogni anno vanno a coprire le voragini del bilancio dello Stato e a tamponare la grave crisi economica che flagella il paese. La guerra tra Mosca e Kiev ha peggiorato la situazione nel settore turistico calcolando che il 40 % dei visitatori stranieri proveniva da Russia e Ucraina, mentre l’aumento del prezzo del grano di cui l’Egitto è primo importatore mondiale ha fatto il resto.