Oltre quattrocento giorni dietro le sbarre da uomo innocente. 404 per l’esattezza. Lo avevano accusato di molestie sessuali nei confronti di due ragazzini del coro della cattedrale di Melbourne nel 1996 quando era arcivescovo della città. Uno dei due in seguito si tolse la vita.
E nel marzo 2019, al termine del processo di primo grado, per il cardinale australiano sono scattate le manette.
Non senza subire le urla e gli insulti dei familiari delle vittime che, durante le udienze, gli augurarono di «bruciare all’inferno». Per il County Court dello Stato di Victoria George Pell era colpevole di quegli abusi, senza ombra di dubbio, al punto da respingere l’appello del cardinale e confermare la condanna a sei anni di reclusione. Una sentenza già scritta e accompagnata dal chiassoso coro dei media per i quali Pell non era altro che un raccapricciante orco da sbattere in prigione senza troppi complimenti.
Se non fosse stato per la Corte suprema australiana, che ha sottolineato il gran numero di irregolarità che hanno segnato il processo, Pell sarebbe rimasto a marcire in prigione. Irregolarità che erano emerse già nel primo verdetto emesso senza unanimità: uno dei tre giudici aveva infatti rilevato che non esistevano prove concrete delle responsabilità dell’alto prelato e che quindi doveva essere considerato innocente oltre ogni ragionevole dubbio. Peraltro la testimonianza dell’unica “vittima” che lo ha accusato direttamente era infarcita di inesattezze e contraddizioni, indicando date che non coincidevano con le ipotesi dell’accusa e travisando numerosi dettagli, come il colore del vino liturgico che il cardinale gli avrebbe offerto e lo stesso “luogo del delitto” descritto in modo alquanto sommario. Al contrario, altre testimonianze di giovani chierichetti che avrebbero potuto scagionarlo, non sono state minimamente tenute in conto dalla giuria.
Come spiega il giornalista australiano Andrew Bolt, che si è occupato a lungo del caso, sostenendo fin dall’inizio la sua completa estraneità ai fatti: «L’unico momento in cui l’abuso poteva essere commesso era durante i cinque o sei minuti immediatamente dopo la Messa, durante i quali la sacristia non era occupata da persone intente a portare avanti e indietro gli oggetti liturgici. Ma l’accusatore ha sostenuto che di aver partecipato alla processione del coro dopo la messa, Io ho rifatto lo stesso identico percorso e, cronometro alla mano, posso dire che ci vogliono circa cinque minuti e mezzo. Dunque, non c’era più il tempo materiale per l’abuso».
Ma il clima da caccia alle streghe, alimentato dalla foga giustizialista di tv e giornali, ha spinto gli altri due magistrati del collegio giudicante a ignorare le osservazioni e a consumare quello che è stato un processo mediatico a tutti gli effetti. Al quale Pell non si è mai sottratto, rinunciando con coraggio all’immunità diplomatica di cui poteva godere in quanto terza carica dello stato Vaticano. Per capire al meglio quanto fosse forte la volontà di seppellire Pell in prigione additandolo pubblicamente come “mostro”, è sufficiente procurarsi i giornali che all’epoca hanno coperto il processo per i quali non era altro che un uomo colpevole mentre nelle librerie australiane campeggiavano, ancor prima della sentenza, diversi istant book che lo accusavano di aver commesso altri terrificanti abusi, pur senza lo straccio di una prova
L’esperienza carceraria del cardinale, deceduto ieri a Roma all’età di 81 anni per una complicazione operatoria, è raccontata con vividi particolari in Prison Journal, il toccante libro-diario che ha scritto durante i 404 giorni di ingiusta detenzione: «Le carceri possono essere l’inferno sulla terra. Sono stato fortunato a essere stato tenuto al sicuro e trattato bene. Sono rimasto impressionato dalla professionalità delle guardie, dalla fede dei carcerati e dalla presenza di una moralità perfino nei luoghi più oscuri». Fa impressione il tono naturalistico e per nulla rivendicativo di Prison Journal, che mostra con semplicità le piccole grandi miserie dell’esperienza carceraria, vissuta da Pell come un detenuto qualsiasi: «A Melbourne, stavo nella cella 11, unità 8, al quinto piano. La mia cella era lunga sette o otto metri e larga circa due, appena sufficiente per il mio letto, che aveva una base solida, un materasso non troppo spesso e due coperte. Entrando, alla vostra sinistra, c’erano due scaffali con un bollitore, una tv e lo spazio per mangiare. Dall’altra parte dello stretto corridoio c’era un lavabo con acqua calda e fredda e una nicchia per la doccia».
Pell racconta anche la paura costante di ritorsioni nei suoi confronti, un must per chi ha subito condanne per pedofilia: «Ero tenuto in isolamento per la mia incolumità, poiché i condannati per violenze sessuali su minori, tanto più se preti, in prigione sono fatti bersaglio di aggressioni fisiche e ingiurie. Tutti noi siamo tentati di disprezzare coloro che riteniamo peggiori di noi. Perfino gli assassini condividono lo sdegno verso chi vìola i giovani. Ancorché ironico, questo sdegno non è tutto negativo, poiché rivela una fede nell’esistenza del bene e del male, del giusto e dell’errore, che spesso in galera emerge in modi sorprendenti».
A seguire l’andamento dei processi per lo più indiziari, Pell sembra essere stato il classico capro espiatorio, chiamato a pagare per tutti lo scandalo degli abusi che ha travolto la chiesa australiana (che ha risarcito decine di vittime talvolta con assegni milionari). Eppure tutti gli atti ufficiali del cardinale erano volti a proteggere le vittime e a smascherare gli eventuali carnefici.
Come il Melbourne reponse, un protocollo interno alla chiesa locale del 1996 che invitava tutti i fedeli a denunciare le violenze subite, istituendo una commissione indipendente composta interamente da membri laici per verificare le accuse e risarcire le vittime. E nessuno come lui ha rimosso tanti sacerdoti coinvolti in inchieste per abusi sessuali su minorenni: ben 28 in cinque anni nella sola Melbourne.
L’assoluzione completa da tutte le accuse ha restituito a Pell giustizia e dignità, ma non ha potuto cancellare le profonde ferite psicologiche provocate dall’ingiusta detenzione che ha dovuto subire a quasi ottant’anni di età.
Secondo il National Catholic Register, il cardinale australiano era stato ricoverato martedì pomeriggio in un ospedale di Roma per un intervento di routine di sostituzione dell'anca. L'operazione ha avuto successo, ma purtroppo ci sono state complicazioni e Pell è morto in seguito a un arresto cardiaco.