Ha destato scalpore e dure critiche dal mondo politico il provvedimento con il quale il capo del Dap, Carlo Renoldi, magistrato giudicante della prima sezione penale della Cassazione, ha autorizzato nelle giornate del 7 e 10 maggio scorsi l’associazione per la tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei detenuti “Nessuno tocchi Caino” a visitare due istituti di pena sardi, il carcere di Sassari e quello di Nuoro, ivi incluse le sezioni dedicate ai condannati in regime di 41 bis. Vicenda che ha profondamente scosso e indignato alcuni esponenti di spicco della politica del Paese, i familiari delle vittime di attacchi ad opera di organizzazioni mafiose nonché alcune voci della magistratura antimafia che sempre si sono dichiarate contrarie ad un alleggerimento del cosiddetto carcere duro. A onor del vero la vicenda, sulla quale nelle ultime ore è tornata l’Unione Camere penali con un’affilata nota stampa, costituisce solo il pretesto utilizzato da alcuni esponenti della politica e della magistratura per minare la credibilità della figura di Renoldi, nominato solo nel marzo scorso al vertice del Dap, e – suo tramite – di quella della ministra Marta Cartabia. Il capo dell’amministrazione penitenziaria infatti, attaccano i suoi detrattori, avrebbe espresso più volte, mediante esternazioni pubbliche, un approccio (riformatore) e una sensibilità (evidentemente non condivisa) in materia di 41 bis ed ergastolo ostativo del tutto inconciliabili con lo spirito originario che ha portato all’introduzione del “carcere duro”, calpestando così l’eredità lasciataci da Falcone e Borsellino. Queste, tra le altre, le ragioni che hanno portato alcuni dei più importanti e stimati magistrati del Csm ad astenersi o a votare contro la sua collocazione fuori ruolo in vista della nomina. Da qui le polemiche sulla decisione di concedere l’autorizzazione all’associazione “Nessuno tocchi Caino” di accedere negli spazi del carcere duro degli istituti penitenziari sardi nei quali sono attualmente ristretti alcuni dei più rilevanti esponenti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso del Paese. Decisione che è stata percepita come l’ennesima dimostrazione del tentativo, da parte del neo capo del Dap, di “smantellare” il regime del 41 bis. Nello specifico, si sarebbe trattato - come è stato detto - di un permesso “libero”, dal momento che, oltre a non prevedere più l’esclusione delle visite alle sezioni del 41 bis, nulla statuiva in merito alle modalità delle visite, consentendo, ad esempio, di avere colloqui con i detenuti sottoposti a tale regime. In realtà, forse eccessivamente mediatizzata e amplificata la notizia, come spesso accade quando ad essere in discussione sono tematiche che per il nostro Paese costituiscono una ferita ancora aperta, Renoldi, in assenza in quel momento del suo vice, non ha fatto altro se non esercitare le funzioni che la legge gli prescriveva e autorizzava a compiere. Immediatamente, richiesta e acclamata un’audizione in Parlamento della ministra Cartabia e del capo del Dap affinché “riferissero sul caso”. Nel frattempo, il 12 luglio scorso, prima ancora che lo facesse Renoldi, è intervenuto come rappresentante del governo, in un question time davanti alla commissione Giustizia della Camera, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, e ha risposto ad alcuni interrogativi avanzati da più rappresentanti di diverse forze politiche. E il sottosegretario ha lucidamente osservato che: 1) l’atto ispettivo cui era autorizzata l’associazione ha assunto le forme della visita (e non del colloquio), finalizzata come tale alla ricognizione delle condizioni di vita dei soggetti detenuti; 2) le visite, in ossequio alle norme di esecuzione sull’ordinamento penitenziario, possono essere concesse anche a figure diverse dai parlamentari o da altri soggetti istituzionali, purché autorizzate dal Dap, senza peraltro preclusioni in ordine ai reparti visitabili, nemmeno per quelli destinati ai detenuti in isolamento giudiziario (i quali si trovano in una condizione ancor più limitativa di quella discendente dal regime di cui all’articolo 41 bis); 3) le visite consegnavano esiti non certo “edificanti” con riferimento al (cattivo) funzionamento dell’Area sanitaria degli istituti di pena. Sterili e infondate le “accuse” mosse al nuovo capo dell’Amministrazione penitenziaria di voler smantellare, passo dopo passo, il regime di carcere duro. Come precisato dallo stesso sottosegretario Sisto, “in alcun modo le autorizzazioni concesse in passato e da ultimo possono interpretarsi come un cambio di regolamentazione nel ricorso al cosiddetto carcere duro”. È l’appartenenza ad uno Stato di diritto, e non a uno di polizia, che impone culturalmente, prima che giuridicamente, di rinunciare a facili derive giustizialiste in favore di una costante osservanza e opera di affermazione dei principi costituzionali fondamentali dell’ordinamento (a cominciare dal diritto alla salute) stabiliti, senza distinzione alcuna di status detentionis, in favore di ciascun individuo. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici