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Sulla carta l'addio di Di Maio alla guida dei 5S dovrebbe rivelarsi un fattore di rafforzamento del governo. In questi travagliati cinque mesi il ' leader politico' del Movimento ha spesso rivestito i panni del guastatore e la sorda ma sempre più tesa competizione tra lui e Conte non ha certo aiutato un governo già cagionevole dalla nascita. Di Maio, inoltre, era di fatto il leader della corrente autonomista dei 5S, quella decisa, probabilmente fuori tempo massimo, a difendere la linea del ' né di destra né di sinistra', contraria dunque alle alleanze stabili e strategiche e in particolare al matrimonio con il Pd.
Il principale elemento di debolezza della maggioranza giallorosa, sin qui, è stato proprio l'assenza di progettualità. Da agosto, nonostante inviti, auspici ed esortazioni anche dello stesso Beppe Grillo, la maggioranza è sempre rimasta posticcia, priva di un vero collante oltre l'urgenza di far fronte comune contro Salvini e la destra dilagante. Nell'opporsi alla costituzione di vero polo, di un nuovo centro- sinistra, è stato principalmente il giovanissimo che da ieri non è più leader. Senza di lui la strada non è sgombra, i giochi non sono già fatti, ma l'ostacolo più difficilmente sormontabile è stato rimosso.
Può essere che le cose vadano davvero così. I due principali attori in campo in quell'area, Zingaretti e Conte, a questo puntano. Grillo, il padre fondatore, ha già dato la sua benedizione e anzi è stato il primo a indicare la nuova strada. Eppure il sentimento che si respira nelle file della maggioranza non è affatto di sollievo ma, al contrario, in tensione e accresciuta inquietudine e chiamati a rispondere sul quesito se la diparta del pur discusso Giggino sia elemento che stabilizza oppure destabilizzante, quasi tutti opterebbero senza esitare per la seconda ipotesi. Gli elementi che mettono paura ai soci dell'attuale maggioranza sono parecchi. Il primo e più immediato è che Di Maio, pur con tutti i suoi errori e le sue ingenuità a volte imperdonabili, garantiva comunque quel tanto di unità che ancora tiene insieme un Movimento passato nel giro di un anno o poco più da monolitico a balcanizzato. In quasi tutte le occasioni di scontro acuto, il ministro degli Esteri ha cercato di tenersi in equilibrio sempre più instabile, offrendo qualcosa a tutte le anime del M5S. E' probabile, pur se non certo, che la sostituzione con un reggente, oppure con un gruppo per forza di cose di disomogeneo, o con un altro leader altrettanto necessariamente schierato su una posizione condivisa solo da una parte del Movimento o infine con una squadretta che affiancherebbe lo stesso Di Maio finisca invece, in ciascuna di queste ipotesi, per accelerare la spinta centrifuga, sia nei gruppi parlamentari che nell'elettorato. La realtà è che Di Maio era probabilmente poco adeguato come leader ma è anche molto difficilmente sostituibile. E' solo per coincidenza che il suo passo indietro arriva in contemporanea con la rivolta clamorosa dei consiglieri comunali pentastellati contro la più importante sindaca del Movimento, quella di Roma. Ma si sa che spesso le coincidenze sono eloquenti. I due episodi illustrano la situazione di un movimento vicinissimo al punto di esplosione.
Ma l'effetto del gesto di Di Maio sui gruppi parlamentari è in realtà secondario rispetto alla più temibile risposta dell'elettorato. Di Maio e Di Battista, con il loro ormai quasi nostalgico autonomismo, sono il solo filo di continuità con l'età d'oro del Movimento, così recente e allo stesso tempo sideralmente lontana. L'abbandono del timone rischia di suonare come un ' Liberi tutti' le cui conseguenze potrebbero vedersi già domenica in Emilia- Romagna. Gli elettori pentastellati potrebbero infatti votare la loro lista ma poi dividersi clamorosamente sul voto per il candidato. Emergerebbe così platealmente la realtà di un movimento verticalmente spaccato alla base ancor più che al vertice.
Infine, è molto improbabile che Di Maio intenda davvero lasciare il campo a figure sin qui di secondo piano. E' possibile, come sospettano in molti, che miri a essere richiamato a furor di popolo dai prossimi Stati generali, un passaggio che gli permetterebbe di domare in un colpo solo il dissenso interno. In caso contrario, però, lui e Di Battista resteranno una spina nel fianco di chiunque provi a governare quel formicaio impazzito che è oggi il M5S. Profonda e acuminata.