Resisterà, Nino Di Matteo, alla Procura nazionale antimafia? Quanto potrà adattarsi, nell’angusta cornice delle funzioni assegnate ai sostituti della Dna, uno con così spiccata attitudine a giocare da libero? Domanda inevitabile, dopo aver ascoltato l’ultima “avvelenata” del pm. A un convegno su “Mafia e corruzione” organizzato nell’università di Palermo, ha così descritto lo stato della magistratura: «Purtroppo ha mutuato dalla peggiore politica gli odiosi sistemi per la spartizione del potere. La degenerazione del cosiddetto siste- ma correntizio, quindi dell’autogoverno della magistratura, è sotto gli occhi di tutti». Parliamo di pm che, da quell’autogoverno, non è stato trattato così male: dopo una prima bocciatura, gli hanno proposto di essere assegnato all’Antimafia con una procedura extraconcorso, anche per tutelarlo dalle minacce a cui sarebbe rimasto esposto alla Procura di Palermo. Lui non ha accettato: «Alla Dna devo andarci per merito». Finché il criticatissimo, da lui, Csm, lo ha premiato come “vincitore” tra altri candidati, appena è stato possibile. Ma lui continua cannoneggiare: è, oggettivamente, la proiezione in toga dell’antipolitica grillina. Lui è un magistrato, ma è diverso dagli altri, così come i cinquestelle sono un partito, ma che nulla ha a che vedere con gli altri partiti. Il destino naturale, per una figura come Di Matteo, sembra quello della battaglia politica. Lo si intuisce anche quando si descrive come «uno dei pochi magistrati che considera la ricerca della verità sul passato altrettanto importante quanto la ricerca della verità sul presente». Un modo per spiegare la perseveranza nelle accuse al processo “trattativa”, ma anche un’ulteriore dichiarazione della propria diversità. Persino nella digressione più interessante, Di Matteo si distingue: è cioè quando cita le motivazioni della sentenza con cui Giuliano Ferrara è stato assolto dall’accusa di averlo diffamato. Come lui stesso dice, «anche le critiche più accese vanno accettate, da chi riveste un ruolo pubblico, e vale anche per un magistrato». Appunto. Infatti è per questo che il fondatore del Foglio è uscito illeso dalla querela del pm. Il quale però, con un guizzo d’astuzia, ribalta tutto: «Anche le sentenze dei giudici possono essere criticate», compresa quella del collega che gli ha dato torto. Nel bene e nel male, la toga, al grande teorico dell’accordo Stato– mafia, va sempre più stretta.