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watergate tycoon trump usa
Quanti “gate” si sono susseguiti nel corso dell'ultimo mezzo secolo? Innumerevoli e non solo negli Usa. Il nome di quell'albergo di Washington, il Watergate Hotel, è diventato sinonimo di “scandalo politico”, campeggia ovunque, resiste all'usura del tempo. Portò alle dimissioni del presidente Richard M. Nixon il 9 agosto 1974, a meno di un anno e mezzo dall'inizio del suo secondo mandato. Aveva resistito e puntato i piedi per mesi ma la resa era ormai inevitabile. Senza la dimissioni l'impeachment sarebbe stato inevitabile. L'impatto dello scandalo sugli Usa e sugli americani fu enorme: una crisi di fiducia del Paese nei confronti delle istituzioni senza precedenti e in una certa misura mai del tutto recuperata.
Eppure il crimine in sé, il fattaccio all'origine della slavina, era in realtà poca cosa. Cominciò tutto, nella notte del 17 giugno 1972, con un pezzetto di nastro isolante adoperato per tenere aperta la porta che conduceva al parcheggio sotterraneo dell'edificio che ospitava il Watergate Hotel ma anche, al sesto piano, il quartier generale del Comitato democratico che gestiva la campagna elettorale nell'anno delle elezioni presidenziali. Un agente della sicurezza rimosse il nastro senza dargli alcuna importanza. Ma quando nel giro di sorveglianza ripassò di fronte alla porta ritrovò un altro nastro isolante rimesso accuratamente a posto. Stavolta avvertì la polizia che sorprese cinque uomini negli uffici del Comitato democratico.
Poteva sembrare un caso di effrazione come tanti ma i cinque erano equipaggiati con strumenti troppo sofisticati e uno di loro, James McCord aveva un passato nell'Fbi e nella Cia nonché un presente nel Cpr, il Comitato per la rielezione di Nixon, guidato dall'ex ministro della Giustizia John Newton Mitchell. Essendo il reato stato commesso nella capitale federale le indagini spettavano all'Fbi e il Bureau era in pieno terremoto. L'autocrate che lo aveva diretto per oltre quarant'anni era morto il mese prima.
La lotta per la successione ma anche per la ristrutturazione della potentissima agenzia era feroce e quanto spietata lo si è capito a fondo solo nel 2005, quando l'allora vicedirettore dell'Fbi Mark Felt, in guerra col direttore ad interim Patrick Gray, rivelò di essere lui “Gola Profonda”, il sino a quel momento misterioso informatore che aveva indirizzato con le sue confidenze Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del Washington Post che avevano reso una notizia da fondo pagina, definita dal portavoce della Casa Bianca Ron Ziegler “uno scasso di terza categoria”, lo scandalo del secolo.
Le prime indagini individuarono un legame tra gli scassinatori e ambienti vicini alla Casa Bianca. In effetti a proporre il piano per spiare il partito avversario ricavandone vantaggi per la campagna elettorale era stato un ex agente del Fbi, Gordon Liddy. Lo aveva proposto al direttore del Cpr Newton Mitchell, il via libera era stato dato in marzo ma non ci sono prove tali da dimostrare che il presidente Nixon fosse al corrente dell'operazione. Di certo però “Tricky Dick”, come veniva chiamato sin dagli anni ' 50 uno degli uomini politici meno limpidi d'America, fu decisivo nella campagna per depistare le indagini, distruggere prove, impedire che lo scandalo influenzasse il voto di novembre. Il direttore del Bureau si prestò al gioco. Il consigliere legale del presidente John Dean, che un anno dopo con le sue deposizioni di fronte alla Commissione d'inchiesta del Senato lo avrebbe messo con le spalle al muro, fu decisivo nelle operazioni d'insabbiamento.
All'inizio la manovra della Casa Bianca funzionò egregiamente. Il 15 settembre 1972 l'inchiesta del Grand Jury si concluse con l'incriminazione solo dei cinque uomini sorpresi negli uffici del Comitato democratico, di Liddy e di Howard Hunt, altro ex agente che dirigeva con Liddy l'operazione. Nixon sembrava salvo e vinse trionfalmente le elezioni di novembre. Ma le inchieste giornalistiche, soprattutto quella del Washington Post proseguì e impedì che la faccenda fosse dimenticata, sino alle drammatiche sedute pubbliche della commissione d'inchiesta del Senato, seguite in tv da decine di milioni di persone, nelle quali Dean e altri funzionari pentiti denunciarono le manovre del presidente per depistare le indagini.
L'ultima mano si giocò sui nastri con le registrazioni dei colloqui del presidente nella sala ovale. Nel luglio 1973, in una seduta della commissione, i collaboratori del presidente ammisero che tutte le conversazioni venivano registrate. Nixon si rifiutò di consegnarli invocando una norma che sembrava consentirglielo. Chiese al procuratore Cox, che aveva chiesto i nastri, di rinunciare. Cox insistette. Il presidente costrinse alle dimissioni, il 20 ottobre ' 73, il procuratore generale e il suo vice, rei di non aver messo alla porta Cox.
Il nuovo procuratore però non mollò la presa. Nixon, pur non consegnando le registrazioni, dovette però mettere a disposizione le trascrizioni parziali, che confermavano le accuse di Dean. Risultò che in uno dei colloqui più importanti, quello del 20 giugno 1972 con il capo di gabinetto Hadelman, erano stati cancellati 18 minuti di registrazione. La segretaria del Presidente Rose Mary Wood si assunse la responsabilità della “cancellazione accidentale”.
I periti dimostrarono che l' “accidente” era escluso. Il 24 luglio 1974 la Corte suprema sentenziò che il “privilegio dell'esecutivo” impugnato da Nixon per non consegnare i nastri non poteva essere in questo caso adoperato. Il 30 luglio il presidente consegnò al procuratore i nastri, alcuni dei quali dimostravano senza possibilità di dubbio le manovre della Casa Bianca per soffocare lo scandalo. Nove giorni dopo Richard Nixon, “Tricky Dick” si arrese e rassegnò le dimissioni.