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Sessant'anni fa o giù di lì la sporca guerra nel Vietnam, il razzismo che ancora imperversava a viso aperto, la richiesta di maggiore libertà su tutti i piani incendiarono le università americane. Una panoramica a volo d'uccello sembra immortalare oggi un quadro simile nei campus americani (dove sono stati arrestate decine di studenti per manifestazioni non autorizzate e slogan antisemiti): la guerra di Gaza e il coinvolgimento indiretto degli Usa, il razzismo ipocrita e velato inchiodato da Black Lives Matter, la rivendicazione di una piena libertà di gender, del rispetto pieno e totale dei diritti Lgbt e nuove consonanti e vocali si aggiungono ogni giorno.
Però, mettendo maggiormente a fuoco, evidenziando i dettagli, spunta una differenza stridente: quegli episodi di antisemitismo sono troppo numerosi e troppo quotidiani per essere sbrigativamente liquidati come particolari insignificanti. Questo, sessant'anni fa, non sarebbe stato neppure immaginabile e pone pertanto interrogativi non eludibili. Anche perché l'antisemitismo, bestia proteiforme e cangiante nonostante la presenza di alcuni elementi sempre uguali, denuncia sempre, nelle sua varie incarnazioni, i guasti di un'epoca e della sua cultura.
Le forme di antisemitismo del passato, e in particolare quella razziale alle origini delle tragedie del secolo scorso, si fondavano tutte sulla diversità degli ebrei rispetto alla comunità dei credenti o al corpo sano della nazione. La metafora largamente usata dal nazismo, ossia il “virus” che aggredisce dall'esterno la nazione e la infetta, è esemplare. L'antisemitismo contemporaneo, accanto al quale convivono forme residuali di quello passato, è non diverso ma opposto e per questo si diffonde più facilmente a sinistra che non a destra. Questo nuovo antisemitismo si scaglia contro il sionismo, ma anche contro tutti quegli ebrei che non abiurano il sionismo, non in quanto altro da sé ma in quanto espressione eminente e soprattutto attuale dei mali dell'Occidente.
È il colonialismo, anche se un colonialismo senza madrepatria è difficilmente concepibile. Non massacra, come se i massacri di per sé non fossero sufficientemente gravi: vuole il genocidio, accusa particolarmente odiosa essendo rivolta a chi di un genocidio è stato effettivamente vittima. Israele non è uno Stato democratico guidato oggi da una maggioranza politica di destra: è la Germania hitleriana e sionismo viene adoperato comunemente come sinonimo di nazismo. La contraddizione tra questo modello di antisemitismo e le nobile cause che agitano i campus su entrambe le sponde dell'Atlantico è solo apparente.
La rivolta degli anni '60, sia nel suo versante riformista-kennediano che in quello radicale-rivoluzionario, era progressiva. Mirava ad allargare i diritti e i benefici che l'Occidente concedeva ancora a pochi, anche rovesciandone la struttura capitalista ma sempre in direzione di un allargamento del benessere. Denunciava l'ipocrisia di un sistema che contraddiceva a suon di bombe e di segregazione i propri conclamati valori ma senza negarlo. Era libertario, vietava vietare, mentre gli epigoni mostrano una fede assoluta nella doti taumaturgiche del divieto e della prescrizione.
I nipoti di quei ribelli sono animati da un odio integrale per sé e per il mondo dal quale provengono. L'Occidente non è macchiato dal colonialismo o dal razzismo: l'Occidente si identifica senza scarti con il colonialismo e con il razzismo. Quando si guarda allo specchio vede riflessa solo l'immagine di Leopoldo del Belgio e sullo sfondo di Adolf Hitler. Sfuggono alla colpa originaria solo quelli che possono dirsi integralmente vittime del sistema anche se per questa strada, come ironizzava una femminista nera intersezionalista, "le sole ad avere le carte in regola, di questo passo, saranno le donne nere, lesbiche, povere e grasse". Qualsiasi altro aspetto, la rivoluzione francese e il welfare, l'emancipazione e la lotta di classe, scompaiono dall'identikit criminale, ed esclusivamente criminale, dell'Occidente.
Un sionismo immaginario e quasi senza punti di contatto con il sionismo reale diventa così allo stesso tempo emblema delle colpe dell'Occidente e strumento per esorcizzare quelle colpe demonizzando, mettendo al bando e se del caso aggredendo chi ne è considerato oggi l'incarnazione. Come sempre in nome del bene assoluto.