Parlando della violenza nei licei in un incontro alla periferia di Parigi, il premier francese Gabriel Attal ha lanciato un cupo allarme: «Nelle nostre scuole, e non solo, ci sono gruppi più o meno organizzati che vogliono imporre i precetti della sharia, la legge coranica». Poi ha disposto un piano d’intervento concertato con il ministero della Giustizia che prevede pene più severe per le aggressioni o le minacce di natura religiosa: «Sarà considerata una circostanza aggravante e ogni episodio verrà segnalato alle procure come violazione dei valori repubblicani». Insomma, prova a spiegare Attal, «bisogna essere franchi: i problemi che viviamo nelle nostre scuole hanno in gran parte un sottotesto identitario e religioso». Il premier ha poi evocato le proteste nelle università, anche nella prestigiosa Science Po fucina di intellettuali, contestazioni animate dai movimenti pro Palestina in cui la solidarietà per la popolazione di Gaza si intreccerebbe in modo sospetto con le parole d’ordine dell’estremismo islamico, con rumorose minoranze che invocano la distruzione di Israele. Tutta questa dinamica per il capo del governo farebbe parte di una precisa strategia «entrista» ossia di infiltrazione nei gangli vitali della République per aggredirne i principi fondamentali con il conflitto israelo-palestinese a fare da detonatore.

Davvero la Francia rischia nel prossimo futuro di trasformarsi nella distopoia politica immaginata dallo scrittore Michel Houellebecq in Sottomissione, una nazione governata da un presidente islamista, dove le donne vanno in giro velate e in cui le lobby musulmane hanno preso il controllo del sistema educativo e accademico?

Di certo il paese del Lumi più di tutti i suoi vicini europei ha un rapporto irrisolto e spesso conflittuale con la sua comunità musulmana, composta da sei milioni di individui, soprattutto per via del suo passato coloniale vissuto con risentimento da parte della popolazione di origine araba, specie tra le classi povere. La granitica interpretazione della laicità, con la legge dei primi anni 2000 che vieta l’ostentazione di qualsiasi simbolo religioso negli spazi pubblici, in particolare il velo nelle scuole,

ha segnato un ulteriore frattura. Nell’ultimo decennio la Francia, più di tutti i suoi vicini europei, ha pagato un pesante tributo al terrorismo jihadista di cui sembra costituire una specie di “bersaglio naturale”: Charlie Hebdo, Batalcan, Nizza, il professore decapitato Samuel Paty, vittime innocenti del fanatismo nichilista che hanno alimentato le tensioni comunitarie ma anche un aperto razzismo nei confronti dei musulmani francesi che denunciano un clima di dilagante islamofobia.

Durante una gita scolastica di una classe di Nizza una ragazzina di 13 anni è stata redarguita e sanzionata dalla direzione scolastica perché si era messa silenziosamente a pregare sul pullman e perché nella valigia aveva portato un tappetino destinato alla preghiera. Un piccolo esempio che mostra quanto sia sottile il confine tra rispetto formale dei principi e stupida intolleranza. L’imam della Grande Moschea di Parigi ha da parte sua criticato aspramente i propositi di Attal, sostenendo che mettere in relazione violenza nelle scuole e islamismo è pura propaganda: «Il primo ministro ci può spiegare il legame tra le due cose? È in grado di citare studi che provano le infiltrazioni islamiste? Sono dichiarazioni disarmanti senza alcun rispetto per la realtà».

Se a Parigi la questione è entrata nel cuore della campagna elettorale, anche dall’altra parte del Reno il dibattito su una presunta offensiva islamista occupa il centro della scena. Sabato scorso ad Amburgo c’è stata una manifestazione di fondamentalisti che reclamavano l’istituzione di un Califfato in Germania, qualche agguerrito centinaio di persone su milioni di musulmani a cui i media hanno dato grandissimo risalto, pubblicando, come ha fatto il tabloid scandalistico Bild, fantomatiche inchieste in cui i bambini tedeschi si convertirebbero progressivamente all’islam «per paura».

Lo scorso novembre sempre Bild ha pubblicato un manifesto in cinquanta punti rivolto ai musulmani che vivono in Germania; un lungo elenco di principi spesso condivisibili come la parità sessuale, la libertà religiosa e di espressione, il rispetto di ogni diversità politica e culturale, alternato a grottesche indicazioni per essere un buon cittadino tedesco come «far sedere gli anziani sugli autobus», «pulire i parchi pubblici dopo i pic nic», «essere gentili dicendo “grazie” e “prego”», «usare i petardi solo a capodanno», più vari riferimenti alle spose bambine, alla poligamia, persino alla «lapidazione». La difesa dei valori laici e democratici che si intreccia con i peggiori stereotipi razziali, un’ambiguità che sembra il tratto distintivo della nostra epoca.