Putin, Erdogan, gli ayatollah... lo sanno anche loro: il re è nudo, e a spogliarlo sono le donne. Semplificando un po’, si può dire che la condizione femminile è lo specchio da cui guardare ogni regime. Perché al pari di alcune professioni o vocazioni umanitarie, l’essere donna è di per sé una condanna, in certi paesi. Ma anche una possibilità, se si guarda la faccenda da un altro punto di vista. Il ragionamento dovrebbe essere più o meno questo: l’impegno politico per alcune donne è una questione di sopravvivenza, e se non hai scelta sei portato a trovare una strada per restare in vita. Nel vero senso della parola, o soltanto socialmente.

Dalle nostre parti siamo abituati a pensare la politica come un “vezzo”, più che una condizione di necessità. Persino per chi la coltiva inseguendo un ideale. Ma non puoi combattere per una certa idea di mondo, se un posto al mondo non ce l’hai. Se mentre sei a casa a bere il tè ti arriva un messaggio, è la polizia morale che ti avvisa: ti ho fotografato alla guida senza velo, rischi grosso. Dal 15 aprile 2023 in Iran più di un milione di donne lo hanno ricevuto. Sono stati inviati 133.175 messaggi per disporre il fermo del veicolo, 2mila automobili sono state confiscate, e più di 4mila “recidive” sono state segnalate alla magistratura, dice Amnesty International.

Sembrerà niente di fronte alle esecuzioni capitali, sette dalle proteste per Mahsa Amini, o alle migliaia di arresti illegali. Il codice penale islamico prevede punizioni degradanti per le donne che appaiono in pubblico senza velo: dall’obbligo di partecipare a sessioni di consulenza per “disturbo di personalità antisociale”, alla pulizia dei cadaveri nelle camere mortuarie. Si rischia anche la vita. Ma quel dato sulle “recidive” di cui le autorità ammettono l’esistenza è la spia di una ribellione che a Teheran non si è ancora spenta.

Un anno dopo la morte della 22enne ammazzata di botte per la ciocca fuori dal velo, il cambiamento “cova sotto la cenere”, dicono gli esperti. Se i giovani si sono uniti alle donne per strada vuol dire che anche per loro è troppo. Di certo lo è per Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate per aver difeso le ragazze della via della Rivoluzione, salite su dei cubi di cemento in segno di protesta togliendosi il velo. E anche per Masih Alinejad, attivista iraniana esiliata dal 2009 negli Usa, che parla di «apartheid di genere». «La rivoluzione delle donne dopo Mahsa Amini non è solo una lotta contro il velo obbligatorio: le iraniane vogliono una democrazia laica in cui la religione sia separata dalla politica », dice Masih (21 settembre, Skytg24).

Nel rapporto 2023 del Global Gender Gap, la classifica stilata dal World Economic Forum su 146 paesi, l’Iran si piazza al 143esimo posto. Ma che la si guardi dal punto di vista del welfare, del reddito o dell’istruzione, ogni indice porta l’Afghanistan in coda alla classifica (in cima c’è l’Islanda, che manca la piena parità di genere solo per un 10 per cento). Negli ultimi due anni, da quando i talebani hanno ripreso il potere, nei confronti delle donne è partita una vera e propria persecuzione, che le ha rapidamente escluse da ogni ambito della vita pubblica. Scuole e università sono state il fronte di guerra privilegiato: l’Afghanistan è l’unico paese al mondo che proibisce l’istruzione femminile dopo la scuola primaria. E chi si impegna per garantire alle ragazze una formazione, anche in maniera clandestina, paga un prezzo altissimo. «I decreti del 24 dicembre 2022 e del 4 aprile 2023 sul divieto di lavorare per le organizzazioni non governative e le Nazioni Unite hanno fornito ulteriori prove della discriminazione di genere», spiega Amnesty.

A completare il quadro c’è l’obbligo per le donne di essere accompagnate da un mahram (un guardiano) nei viaggi di lunga distanza, e il decreto che obbliga le donne a stare a casa se non quando strettamente necessario. Chi protesta contro le politiche repressive dei talebani subisce arresti illegali, torture e maltrattamenti. La Cedaw, la Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne, entrata in vigore nel 1981 e ad oggi ratificata da oltre due terzi degli Stati membri, è semplicemente carta straccia. Come lo è per la Turchia la Convenzione di Istanbul, da quando, nel marzo 2021, Erdogan ha deciso di ritirare la firma dal trattato già ratificato. Dalle parti di Ankara il tentativo di sradicare le donne in quanto soggetto politico è parte di un disegno più ampio, che mira a fiaccare l’elettorato femminile per neutralizzare l’opposizione politica e sociale.

Eppure sono sempre le donne a inchiodare i dittatori di fronte alle loro responsabilità, con il proprio esempio. O il loro sacrificio, come nel caso dell’avvocata turca Ebru Timtik, morta dopo 238 giorni di sciopero della fame nelle prigioni del Sultano. Ebru chiedeva soltanto un giusto processo, e il suo grido, rimasto a lungo inascoltato, è riuscito infine a corrodere l’immagine del regime di fronte all’opinione pubblica mondiale, svelando il vero volto della Turchia dall’interno delle sue carceri.

D’altronde, si diceva, la condizione femminile è lo specchio di ogni regime, che agisce secondo un copione sempre uguale: violando le donne nel corpo e negli affetti. Diritti sociali, politici e riproduttivi sono il primo bersaglio. E le leggi restrittive sull’interruzione di gravidanza che si moltiplicano nel mondo sono l’esempio più lampante. Nella solida democrazia degli Stati Uniti come nella Russia di Putin, dove le donne sono messe semplicemente a tacere. È il caso, tra le altre, della reporter Anna Politkovskaya, che ha pagato con la vita i suoi reportage sui crimini perpetrati dall’esercito russo in Cecenia. Ma anche lì, all’ombra del Cremlino, il dissenso non muore. Ed è stata ancora una volta una donna a mettere a nudo il Re: lo ha fatto la giornalista russa Marina Ovsyannikova, rifugiata in Francia dopo aver demolito le bugie sull’invasione in Ucraina con un cartello esposto in diretta tv. I tentacoli del regime le hanno tolto prima il lavoro, poi i figli, poi lo stesso diritto a vivere nel proprio Paese.

Ma il suo contributo alla verità non può essere semplicemente cancellato con un tratto di penna: lo sa bene Putin, come doveva saperlo il dittatore domenicano Rafael Trujillo, che il 25 novembre del 1960 diede l’ordine di assassinare Minerva Mirabal e le sue sorelle. Minerva aveva osato rifiutare le avances di Trujillo e la sua sfida al regime, più di ogni altro atto politico, diede vita a una mobilitazione che portò infine alla morte del dittatore. Uccidere le dissidenti non aveva cancellato la rivolta, tutto il contrario. Perché le donne sono il primo nemico di un regime, ma anche il nemico che più va temuto.