Fate liberare mio figlio», dice affacciata al balcone dello Speaker’s corner di Edicola Fiore, Doina Coman, mamma dell’italiano Cristian Provvisionato che da quasi due anni è detenuto in Mauritania. Lei ha chiesto aiuto a Fiorello per dare visibilità alla sua protesta. Esponendo una maglietta con la foto del figlio con la scritta “Libertà per Cristian Provvisionato”, la donna ha avuto la possibilità di denunciare la vicenda. «È un prigioniero politico - ha spiegato la mamma del detenuto italiano all’estero che ha anche sollecitato sul caso l’aiuto del ministro degli Esteri Angelino Alfano -, non ha commesso assolutamente alcun reato né in Italia né tantomeno in Mauritania. Tra 8 giorni sono 21 mesi che si trova detenuto lì senza un’accusa precisa. È stato inviato in Mauritania dal suo datore di lavoro di Milano e dopo 14 giorni è stato trattenuto in arresto. Per quattro mesi non abbiamo saputo più nulla di lui. Ora sappiamo che è ancora lì, ma è innocente».

Una vicenda complicata e anche piena di ombre inquietanti. L’uomo è un 43enne, di professione bodyguard, che da poco meno di due anni è in stato di fermo in Mauritania senza che la diplomazia italiana sia ancora riuscita ad ottenere alcun risultato. È in stato di arresto nel paese africano dall’agosto del 2015 in seguito alle accuse per una presunta truffa informatica a discapito del governo locale da parte di alcune società impegnate nella vendita di software- spia. In realtà, però, queste accuse non risultano direttamente a carico del giovane, il quale sarebbe trattenuto dal governo mauritano come “figura di garanzia”, per indurre il pool di società estere responsabili della truffa per oltre un milione e mezzo di euro a pagare le conseguenze del loro atto criminale. Tra le società incriminate, infatti, risulterebbe anche la società milanese che nell’estate di due anni fa ha convocato Cristian in Mauritania per sostituire un professore esperto di O. S. Int. ( Open Source Intelligence, cioè notizie che si possono trovare su fonti pubbliche, come libri, articoli o internet). Cristian non ha alcuna competenza, ma conosce l’inglese perché ha fatto un corso di sicurezza in Inghilterra. Quello che avrebbe dovuto fare, infatti, è soltanto leggere un documento durante un meeting organizzato dalle società informatiche per vendere i loro prodotti. Ma non accadrà perché il meeting salta e Cristian viene arrestato. C’è chi parla di trappola, intrighi con intelligence e addirittura responsabilità che vogliono coprire dall’alto. Resta il fatto che Provvisionato è rimasto solo: trattative diplomatiche – almeno ufficialmente – inesistenti. Provvisionato attualmente sarebbe bloccato nella caserma dell’antiterrorismo della capitale Nouakchott. Da cittadino che non ha commesso reati, ha la possibilità di utilizzare il telefono cellulare per tenersi quotidianamente in contatto con i suoi cari e può circolare libe- all’interno della caserma, ma non può in alcun modo allontanarsi da essa. L’uomo, inoltre, essendo diabetico e non avendo a disposizione le cure adeguate, negli ultimi mesi avrebbe perso trenta chili mettendo a repentaglio la sua salute.

Di italiani detenuti nelle carceri straniere ce ne sono tanti. ll ministero degli Esteri ha messo a disposizione gli ultimi dati riguardante l’anno 2016. Risulta un totale di 3288 reclusi dove 687 sono condannati, 2567 in attesa di giudizio e 25 in attesa di estradizione. Il numero maggiore, ben 2 554, sono concentrati nei paesi dell’Unione europea, 173 nei paesi non aderenti alla Ue come Albania, Svizzera e Turchia, 461 nelle Americhe, 42 nel Medio oriente, 15 in Africa e 43 in Asia e Oceania. Il dato più curioso riguar- da la Germania: ha il record della detenzione di italiani all’estero con un totale di 1191 detenuti, tra i quali 1048 in attesa di giudizio, 126 condannati e 17 in attesa di estradizione. Per quanto riguarda le Americhe, al primo posto ci sono gli Stati Uniti con 79 detenuti italiani, a seguire il Brasile con 77, il Perù con 60 e il Venezuela con 48. Nel medio oriente ci sono gli Emirati Arabi con 11 detenuti, mentre in Africa abbiamo il Marocco con 16 detenuti e il Sengal con 5. Dal dossier del Viminale emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla ' Convenzione di Strasburgo' del 1983 e da diversi ' Accordi bilaramente terali' nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è negata l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e in molti casi le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo.

In India ci fu il caso emblematico di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare due anni fa in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani erano stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: i barak, ospitano circa 140 detenuti con temperature che arrivano a 50 gradi. Costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Poi, per fortuna il lieto fine.