Nella sentenza della terza sezione penale della Suprema corte si legge che la consulenza dell’Ufficio di Procura è “assistita da una sostanziale priorità” rispetto alla consulenza della difesa, “anche se costituisce il prodotto di un’indagine di parte”. L’affermazione della Cassazione ha immediatamente spinto la mente dei giuristi a recuperare il testo della legge costituzionale 23 novembre 1999, numero 2, relativa all’inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, e con questa i lavori preparatori in seno a quella che fu la Tredicesima Legislatura. A distanza di poco tempo dalla stesura della prima bozza di proposta relativa all’inserimento della figura dell’avvocato nella Carta costituzionale, l’arresto giurisprudenziale appena ricordato ingenera non poche perplessità e lascia basiti proprio gli avvocati, se non fosse che proprio il presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio fu uno dei primi magistrati a unirsi all’iniziativa del Cnf sull’inserimento in Costituzione della figura dell’avvocato, per mettere in evidenza l’esigenza di modificare la Carta Fondamentale. Come brillantemente illustrava il Presidente, la necessità di una riforma in tal senso è ricollegabile al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della difesa, tassello irrinunciabile della professione forense. E allora, rileggendo i resoconti stenografici d’aula del Senato della Repubblica della seduta numero 549 del 18 febbraio 1999 di esame al nuovo articolo 111 della Costituzione, si coglie tutta la forza e tutta la volontà di rinvenire un equilibrio tra Accusa e Difesa, quali parti processuali aventi pari dignità. La parità tra accusa e difesa è un minimo necessario, dovuto anche se non esplicitamente riconosciuto, almeno implicitamente ricavabile: uguaglianza significa uguali davanti alla legge, uguali nella possibilità di difendersi attraverso un contraddittorio tra le parti che si svolga in condizioni di parità, in ossequio al sacrosanto principio della presunzione di innocenza e della trasparenza dei processi. Mutuando ancora il pensiero filosofico, ricordo che per Locke, il grande ispiratore della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del liberalismo, l'eguaglianza era l’eguale godimento della libertà: il problema però è un altro, “il vero dibattito sul giusto processo si svolge, in realtà, al di fuori di quest’aula”, così annotava il senatore Gasperini nel corso di quell’esame parlamentare, lasciando intendere che il terreno sul quale si gioca la parità dei ruoli è quello del processo, nelle aule di giustizia. Sottomettere un principio fondamentale, riconosciuto in tutti i Paesi civili del mondo, a finalità applicative contingenti non è coerente né con l’esigenza di chiudere velocemente alcuni capitoli processuali pendenti, né con la parità tra le parti, né tantomeno con la terzietà del giudice che —preferendo una parte piuttosto che un’altra — tanto terzo non pare. “Diritto alla difesa e parità con l’accusa non sono forse già sanciti come princìpi e ampiamente condivisi dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo? Dobbiamo tornare a far battaglia per una giustizia che sia degna di tale nome?”. Così chiudeva il suo intervento il già citato senatore Gasperini. Pare anacronistico dover tornare sul “giusto processo” a distanza di ormai 20 anni, quando il principio è ormai più che maggiorenne. Appare straordinario dover ripetere qui concetti che sono ormai nella coscienza di ogni tecnico del diritto, recepiti anche nell’ambito dell’esperienza di ogni giorno: le parti devono essere poste su un piano di parità tra loro; il giudice deve essere terzo; la prova si acquisisce in dibattimento, dove si valuta la sua attendibilità, sia che provenga dall’una sia che provenga dall’altra parte, e con questi mezzi si può raggiungere il fine del processo, che è l'accertamento della verità. E allora torniamo alle parole del presidente Canzio che appaiono ancora più condivisibili e trovano la loro ragione nel meccanismo di inserire in coda al secondo comma dell’articolo 111 la seguente affermazione: “Salvo i casi espressamente previsti dalla legge, nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati, i quali, al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, esercitano l’attività professionale in condizione di libertà e indipendenza”. Poche righe ma che portano il peso specifico del profilo dell’avvocato, figura divisa tra il dovere di osservare la Legge e quello di difendere – da qualsiasi accusa – l’assistito, e per questo sinonimo di libertà. E la parità si apprezza ancor più nel momento di formazione della prova, determinante in quanto funzionalmente idonea a contrastare, neutralizzandola, quella mentalità retrograda, ma ancora oggi assai dura a morire, secondo cui l’istruttoria dibattimentale rappresenti non già il momento e la sede di formazione della prova sui fatti di causa addotti a carico dell’imputato, bensì “una sorta di ultima spiaggia della difesa, in cui le viene garantita la possibilità di confutare la prova del fatto-reato già formatasi e perfezionatasi nel corso delle indagini”, come annotava anche il senatore Mungari, sempre nei corposi lavori preparatori. E come se non bastasse a svilire il ruolo dell’avvocato, come qui già detto, arriva la riforma penale che annichilisce ogni speranza di equilibrio giuridico che si coglieva nel lontano 1999, quando il Parlamento lavorava alla parità delle armi tra Accusa e Difesa. Serve maggior confronto, serve ascolto, dell’avvocato, soprattutto. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici*