Marco Rivadeneira, assassinato nella provincia meridionale di Putumayo, Alexis Vergara ucciso a colpi d'arma da fuoco nella regione occidentale di Cauca, Ivo Humberto Bracamonte caduto al confine orientale con il Venezuela. Tre nomi, tre storie accomunate da un unico destino: morire per mano di squadre della morte in Colombia.

Tutti erano attivisti sociali, leader di comunità contadine che lottavano per i diritti degli indios e per la restituzione della terra sottratta da latifondisti, narcotrafficanti e multinazionali senza scrupoli. Tutti e tre sono morti nella scorsa settimana ma sono solo gli ultimi di una lunga catena.

Da quando, all’inizio del 2017, uno storico accordo ha sancito, almeno sulla carta, la fine della guerra civile tra il governo colombiano e il maggior gruppo guerrigliero, le Farc ( Fuerzas armadas rivolucionarias de Colombia) almeno 271 attivisti hanno perso la vita per mano di gruppi paramilitari.

Per tutti coloro che rappresentano le fasce più povere della Colombia ora il pericolo è diventato ancora più grande. Si chiama Covid 19, ma non corrono solo il rischio di contagiarsi bensì di essere lasciati soli e senza protezione delle autorità per via delle misure stringenti di quarantena. Proprio oggi il presidente Duque darà l’avvio ad un periodo di blocco della circolazione per contrastare l’emergenza sanitaria. Il provvedimento durerà 19 giorni, ed è in questo periodo che gli attivisti temono attacchi.

I casi accertati di coronavirus in Colombia fino ad ora sono stati 306 e 3 persone sono decedute. Le forze di sicurezza, anche quelle private, che dovrebbero proteggere i leader locali saranno impegnate a far rispettare il blocco della circolazione. Il problema maggiore è che la limitazione di movimento può costringere gli attivisti a rimanere forzatamente in posti precisi consentendo a squadroni della morte di individuarli facilmente e prenderli di mira. Le minacce non hanno tardato già ad arrivare. Alcune testimonianze sono state raccolte dal quotidiano inglese Guardian che ha pubblicato interviste di attivisti come nel caso di Carlos Paez, difensore per i diritti della terra in una regione di allevamento di bestiame vicino al confine settentrionale con Panama: «Un messaggio diceva che loro sanno chi sono e che ora è il momento di buttarmi fuori». Ha poi aggiunto: «Stanno giocando con le nostre vite perché sanno che le nostre guardie del corpo, la polizia e il sistema giudiziario saranno ancora meno efficaci di solito. È orribile». Un’angoscia motivata, anche organismi internazionali come l'Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani continuano a segnalare brutali violazioni, una serie di Ong e almeno 100 comunità rurali hanno chiesto con un comunicato di mettere fine alle violenze in questo periodo di emergenza sanitaria.

Accuse piovono anche su Duque, immobile di fronte allo spargimento di sangue in corso. Nessuno pensa che la situazione muterà man mano che avanzerà la diffusione del virus, anzi il contagio potrebbe fornire una scusa efficace per evitare di indagare sui casi di omicidio.