Fino a qualche anno fa era l’ambito laboratorio- vetrina della globalizzazione rampante, appuntamento e passerella irrinunciabile per i potenti del pianeta e per il “vippume” che li accompagnava, dagli attori di Hollywood alle rockstar. Oggi sembra quasi un club esclusivo per notabili di provincia amanti delle nevi, un evento laterale e perfettamente depennabile dalla fitta agenda politico economica mondiale. L’unico peso che mettono in campo i partecipanti al World economic forum che durerà fino a venerdì è quello della loro ricchezza, sempre più concentrata nelle mani di pochi, come proprio ieri sottolineava l’Ong americana Oxfan.

Altro che classe dinamica che pretende di ragionare sull’avvenire e di anticipare le rivoluzioni economiche e tecnologiche, il cimitero degli elefanti di Davos assomiglia a più un’assemblea di proprietari terrieri, di latifondisti che cercano compromessi per proteggere le loro ricchezze senza darsi troppo fastidio a vicenda, gente che ha rinunciato da tempo a prendere in mano il timone di un mondo che gli sfugge di mano.

L’immagine più pregnante del crepuscolo degli dei è il grido d’allarme lanciato dagli albergatori: sono centinaia le stanze disponibili nelle lussuose strutture della località elvetica a causa delle defezioni a catena da parte dei primi ministri e dei capi di Stato; il World economic forum nell’epoca del sovranismo è infatti una tediosa perdita di tempo per chi ha faccende più importanti da sbrigare come, per esempio, Donald Trump, Theresa May ed Emmanuel Macron che quest’anno non metteranno piede nella cittadina svizzera.

Ognuno di loro è alle prese con la propria sfiancante crisi, lo shutdown e il muro al confine con il Messico per il presidente Usa, lo psicodramma Brexit per la premier britannica, i movimenti di protesta sociale per l’inquilino dell’Eliseo.

Se negli anni 90 e nei primi 2000 il destino del mondo pareva giocarsi tra le luci soffuse delle conference room di Davos dove i “grandi” disegnavano le strategie finanziarie del futuro, evocavano un nuovo Eldorado mentre all’esterno pattuglie di agguerriti no- global contestavano la loro legittimità politica, oggi quell’immagine fa davvero tenerezza.

I no- global non esistono più, o meglio, le loro sofisticate ( e a volte prolisse) parole d’ordine sono state cooptate, frullate e riassunte nella propaganda nazional- populista delle nuove destre, molto più efficace e immediata per conquistare il consenso le classi medie impoverite proprio dalla globalizzazione che gli altri decantavano.

L’establishment invece sta vivendo la più grave crisi di consenso del dopoguerra, le famiglie politiche socialdemocratiche e liberali paiono in via d’estinzione, le élite assediate nelle loro stesse capitali pagano la sfiducia crescente degli elettori che le accusano di aver svenduto le economie nazionali agli interessi dei banchieri e prima di poter “pensare globale” hanno bisogno di portare a casa salva la pelle.

E dire che il presupposto del World economic forum era proprio la progressiva rarefazione degli stati nazionali e la trasfor-mazione del mondo in un’unica area di libero scambio dove la politica avrebbe temperato gli spiriti animali del capitalismo finanziario. Tutto un altro film, insomma.

I sopravvissuti di Davos proveranno comunque a far finta di niente e a tratteggiare i loro futuri possibili; intanto all’esterno le misure di sicurezza sono imponenti come sempre, oltre 5mila tra agenti e membri dell’esercito ( ci saranno anche militari austriaci e italiani), spazio aereo chiuso per un raggio di 46 chilometri e fino a un’altitudine di 6mila metri.

Nel caso in cui le condizioni metereologiche dovessero risultare avverse è stato allestito un eliporto dal quale i circa tremila invitati potranno raggiungere il forum in limousine. Un’altra curiosità, che la dice lunga su quanto i tempi siano cambiati, riguarda proprio il responsabile per la sicurezza del vertice: si chiama Peter Peyer, è unesponente del partito socialista e nei primi anni 2000 è andato più volte al summit di Davos, ma tra le fila dei no- global a gridare slogan contro gli stessi capi di Stato che adesso ha deciso di proteggere, anche se non si sa da chi.