Grazie a Vincenzo Semeraro, il magistrato di 63 anni che ha commosso tutta Italia per quella lettera di confessato fallimento di fronte al suicidio della giovane detenuta Donatella Hodo affidata alla sua “sorveglianza”, possiamo risparmiarci una volta tanto il richiamo storico e letterario al giudice di Berlino su cui aveva scommesso il mugnaio prussiano del 1700 per sottrarsi alle angherie dell’imperatore. Non siamo dovuti andare a Berlino, ma a Verona per trovare il nostro onestissimo giudice Semeraro. Che impastando codici e sentimenti ha restituito dignità e sacralità, direi, ad una funzione da troppo tempo esposta, per colpa di una minoranza non necessariamente ma spesso politicizzata, più alla diffidenza che alla fiducia, più alla paura che al rispetto.

Il giudice Vincenzo Semeraro ha avuto il coraggio e l’umiltà al tempo stesso quasi di incolparsi, dopo il suicidio di una detenuta di ventisette anni di cui sei trascorsi in carcere sotto la sua vigilanza per garantire, fra l’altro, il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Che dice: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Un articolo impossibile da rispettare o applicare, per quanta fatica e umanità possa metterci un giudice di sorveglianza come Semeraro, in un sistema in cui «le strutture detentive - egli ha detto in una intervista al Corriere della Sera e al Dubbio successiva alla missiva letta ai funerali di Donatella - non sono a misura di donna».

«Le detenute - ha spiegato - vanno approcciate in modo totalmente diverso, hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite - ha spiegato - in modo specifico e del tutto peculiare. Per Donatella ciò non è avvenuto», semplicemente e dannatamente, pur essendo il giudice riuscito a tentarne il recupero in una comunità dalla quale la giovane era scappata, e lui fosse in procinto di affidarla ai servizi pubblici per le tossicodipendenze, con tutte le loro procedure e i loro tempi. Donatella - ha raccontato il giudice come se ne avesse di fronte la fotografia - aveva vicissitudini pesanti, come macigni. Per andare avanti si era costruita una corazza. Voleva sembrare forte, in realtà svelava una sensibilità estrema. Era fragile come un cristallo».

A proteggere il quale non sono riusciti né la famiglia né lo Stato, né il padre né il giudice, incontratisi in privato dopo i funerali. «Ci siamo abbracciati, piangevamo entrambi. Tutti e due - ha raccontato il magistrato - ci sentiamo in colpa, io come giudice, lui come genitore. Ciascuno ha detto all’altro di farsi forza. È stato toccante. Ma il momento più lacerante è stato quando il papà di Donatella mi ha ringraziato, perché sua figlia gli parlava di me come di un secondo padre. Da brividi».

Sì, da brividi. Che vorrei attraversassero anche la schiena di tanti politici pensando, ciascuno per sé o per il proprio partito in questa campagna elettorale piena, come al solito, di troppe promesse, di troppe dimenticanze e di troppe astuzie, a tutto quello che non si è fatto neppure nella legislatura appena sciolta per rendere davvero e finalmente umana la Giustizia, con la maiuscola. E per fare corrispondere i fatti alle parole della Costituzione, sia nelle carceri sia nei tribunali, dove il garantismo - vorrei ricordare andando anche oltre il dramma di Donatella - suona spesso come una parolaccia, o quasi.