Quarant’anni dopo l’omicidio, si riapre ufficialmente l’indagine sulla morte del giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 dopo avere lasciato la redazione di Op per tornare a casa. La procura di Roma ha infatti delegato la Digos a svolgere i primi accertamenti balistici su alcune armi sequestrate nel 1995 a Monza, dopo la richiesta di riapertura del caso presentata lo scorso 17 gennaio dalla sorella del giornalista, Rosita, e dal legale della famiglia, Valter Biscotti. Gli investigatori dovranno ora confrontare eventuali corrispondenze tra quelle armi e i quattro proiettili con cui venne ucciso il giornalista in via Orazio, nel quartiere Prati, e che ancora potrebbero essere nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza.

Rosita Pecorelli e il suo legale avevano presentato in procura una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma dell’omicidio Pecorelli: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. In alcune dichiarazioni fatte il 27 marzo 1992 al pm Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo, Vinciguerra raccontò di due avanguardisti con i quali, a Rebibbia, parlò dell’arresto di Domenico Magnetta e l’ex Nar Massimo Carminati, avvenuto nel 1981. Era il 1982 e i suoi interlocutori erano Adriano Tilgher e Silvano Falabella.

«Il Tilgher - si leggeva nel verbale - mi disse che Magnetta si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Magnetta, disse Vinciguerra a Salvini, aveva dunque l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 caricata con proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana - alla quale Carminati era affiliato - nei sotterranei del Ministero della Sanità. Quel verbale venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo, tra cui Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò ogni parola. Tutte le comparazioni fatte dalla procura sulle armi, però, non portarono ad alcun risultato.

Ma il 4 aprile 1995 a Magnetta vennero sequestrate delle armi, trovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomati-ca calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, ha spiegato Biscotti ai magistrati, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi». E se la comparazione, dopo l’ordine della Procura di effettuare indagini, fosse positiva, «allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola» .

Processualmente il caso Pecorelli si è chiuso il 30 ottobre del 2003, quando la Cassazione ha assolto definitivamente Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’agguato. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il politico era stato assolto per non aver commesso il fatto assieme ai presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera, accusati di essere gli esecutori materiali del delitto. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l’assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna poi annullata, un anno dopo, dalla Suprema Corte.