Non siamo ancora al terremoto di Mani Pulite, al fervore popolare, ai magistrati divi e al processo mediatico generalizzato e ai suicidi in carcere, ma la crescente influenza dei giudici sul corso della vita politica francese alimenta da tempo discussioni e polemiche. L’ultima coinvolge Marine Le Pen: il Consiglio di stato ha infatti respinto il ricorso contro la sentenza di primo grado nell’affaire dei fondi europei che l’ha resa ineleggibile fino al verdetto d’appello che non verrà emesso prima di un anno e mezzo.

Il calendario repubblicano è crudele e la candidata del Rassemblement National, data in testa da tutti i sondaggi per le presidenziali del 2027, sarà dunque esclusa de jure dalla corsa per l’Eliseo. Era stata riconosciuta colpevole di aver utilizzato fondi comunitari per finanziare la propaganda di partito e non l’attività dei propri europarlamentari ma, allo stesso tempo, su richiesta della Procura nazionale finanziaria ( PNF), la corte non ha sospeso la sanzione che l’ha resa ineleggibile fino al giudizio di secondo grado. In questo caso non si tratta di un automatismo ma di un atto discrezionale. E proprio questa discrezionalità, giuridicamente fondata ma che equivale a una decapitazione politica, che solleva più di un dubbio sulla serenità delle toghe d’oltralpe e sul peso di certe decisioni sulla vita politica nazionale.

Già nel 2017 il gollista François Fillon, favoritissimo per la presidenza, vide i propri sogni sfumare in dirittura d’arrivo: l’inchiesta del Penelopegate che lo coinvolse assieme alla moglie esplode a poche settimane dal voto e gli taglia le gambe relegandolo al quarto posto la sera del primo turno.

In un registro diverso, anche Nicolas Sarkozy è finito nel tritacarne giudiziario: condannato in primo grado nel processo sui presunti fondi libici destinati alla campagna elettorale del 2007, per l’ex presidente martedì prossimo si apriranno le porte del carcere, qualcosa di mai visto nella Quinta Repubblica. Sarko è stato assolto dai reati più gravi (corruzione e riciclaggio) perché le prove dei finanziamenti illeciti non sono mai emerse ma lo hanno riconosciuto colpevole di associazione a delinquere perché avrebbe «avallato» il tentativo di frode. Come per Marine Le Pen i giudici potevano sospendere la pena fino al processo di appello o al limite concedergli gli arresti domiciliari, ma hanno deciso che dovrà soggiornare in un cella di otto metri quadri nel penitenziario della Santé in virtù «dell’eccezionale gravità dei fatti commessi».

Il ricorso all’esecuzione provvisoria della pena, largamente utilizzato per i reati violenti o legati alla criminalità organizzata, è una rarità assoluta per i reati finanziari; nella vicenda Sarkozy non sussiste nessun rischio di fuga, nessuna minaccia per l’ordine pubblico, nessuna possibilità di inquinamento delle prove ( che non ci sono), è una misura simbolica, quasi pedagogica o addirittura una «vendetta giudiziaria» per citare le parole dell’ex capo di Stato.

Dietro questa vague di protagonismo della magistratura si staglia un attore centrale: la Procura nazionale finanziaria. Nata nel 2014 in seguito allo scandalo Cahuzac ( l’ex ministro del bilancio condannato a tre anni per frode fiscale). Nata per combattere la corruzione e i reati economici ad alto livello, è rapidamente diventata una delle strutture più temute della giustizia francese per i suoi metodi spregiudicati, come le intercettazioni abusive dei colloqui tra avvocati e clienti, i blitz e i sequestri egli studi legali, l’indagare persone per anni senza che ne siano a conoscenza.

Nessun altra procura specializzata esercita un potere tanto diretto sulle sorti della vita politica. «Sono dei magistrati ma si comportano come delle spie» aveva denunciato il ministro della giustizia Dupond- Moretti nel 2020 avviando un’inchiesta amministrativa contro le tre toghe che avevano intercettato l’avvocato di Sarkozy. Per i suoi sostenitori, la PNF è la prova che la Francia ha una giustizia indipendente, capace di applicare la legge anche ai potenti. Per i suoi critici, è un’istituzione che si muove in una zona grigia tra diritto e politica, dove la scelta dell’obiettivo e la tempistica delle inchieste finiscono per pesare più dei fatti stessi.