L’appello dei 4mila professori universitari italiani a boicottare le istituzioni accademiche israeliane sembra partorito da un tink tank di Hezbollah ma avrebbe messo di buon umore anche Joseph Goebbels.

«Interrompere ogni collaborazione», scrivono gli invasati ai ministri Tajani e Bernini e alla Conferenza dei rettori in un crescendo rossiniano che accusa lo Stato ebraico di «segregazione razziale» e «genocidio» da «oltre 75 anni». Oltre 75 anni vuol dire l’intero arco di vita dello Stato ebraico che nacque, ricordiamolo, in seguito alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite e non per arbitrio divino.

Al di là della conoscenza sommaria e parziale – o forse soltanto in malafede - della storia (nel ’48, nel ’67 e nel ’73 Israele è stato attaccato dai paesi arabi confinanti che volevano cancellarlo dalla faccia della Terra), quel che colpisce e avvilisce è il bersaglio individuato dai nostri professori.

Non il governo Netanyahu e la sua destra messianica, non l’industria delle armi e il suo indotto miliardario, non la macchina della propaganda bellica, a finire nel mirino sfocato di questa ciurma farisaica è il mondo della cultura, dello studio, della ricerca, dell’incontro tra idee, ossia uno degli spazi più liberi e pluralisti della società israeliana, naturalmente e storicamente contrapposto al fanatismo dei nazionalisti e da sempre favorevole alla soluzione “due popoli due Stati”.

È nelle aule degli atenei di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa che lo scorso anno è nato il movimento che, per interi mesi, ha contestato nelle piazze il premier e i suoi ministri, manifestando contro la riforma della Corte suprema ma anche contro l’espansione degli insediamenti illegali in Cisgiordania e per i diritti della popolazione palestinese. Cosa c’entrano mai i dipartimenti e le facoltà universitarie israeliane con i bombardamenti sulla Striscia Gaza e con la morte dei civili innocenti? La risposta data da Pierluigi Musarò, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Bologna al Corriere della sera è di quelle che fanno cadere letteralmente le braccia: «I miei colleghi non possono più collaborare con le università di Gaza rase al suolo in queste settimane. Il boicottaggio è uno strumento pacifico, non violento di pressione. Non ne abbiamo altri».

Come spesso accade, chi è accecato dall’ideologia oltre alla ragionevolezza e alla logica smarrisce anche il senso del ridicolo inciampando nei paradossi più fastidiosi; e così i firmatari, prima di lanciare il boicottaggio dei loro colleghi ebrei, ribadiscono quanto per loro sia importante «l’impegno per la libertà di parola e il diritto degli studenti e delle studenti al dibattito». Libertà di parola sì, ma non per gli universitari israeliani, meritevoli di isolamento come degli appestati che capolavoro di ipocrisia!

Altri docenti italiani hanno provato a lanciare un contro-appello in cui accusano i boicottatori di «pregiudizio antisemita», e soprattutto di «non rappresentare il pensiero di tutti gli accademici». Questo è sicuro, ma le adesioni al contro-appello sono state fino ad ora decisamente meno numerose, confermando che nelle nostre università abbiamo un problema grande come una casa.