Della questione si discute dagli anni lontani in cui - si era agli albori della globalizzazione - il fatturato dei grandi magazzini statunitensi Wal Mart superò il prodotto interno lordo del Canada. Un’azienda con dimensioni da G7: come arginare lo strapotere che le multinazionali esercitano nei confronti degli Stati- nazione? Il proliferare dei vari accordi di cooperazione, anzitutto economica ma non solo, tra attori statuali regionali, dal Mercosur alla UE per capirci, è stato nel corso dei decenni una prima inevitabile ma inefficace risposta.

Ma il problema è ancora tutto lì, e aggravato: come ha notato Ferruccio De Bortoli in un recentissimo fondo sul Corriere della Sera la contesa in corso per la Casa Bianca vede sul proscenio un cambiamento di rotta politica delle grandi compagnie tecnologiche. Il cui strapotere non è stato possibile arginare nemmeno alle organizzazioni internazionali che ci hanno provato, come l’OCSE o la UE con i tentativi di tassazione sia pure a livelli “simbolici” rispetto ai superprofitti (a Bruxelles il primo a porsi il problema fu Mario Monti commissario alla Concorrenza, che multò Microsoft per una bazzecola, 400 milioni di euro).

Ma se è vero che furono - ancora agli albori della globalizzazione- due liberisti conservatori come Margaret Tatcher e Ronald Reagan ad opporsi a una regolamentazione dei mercati finanziari globali - e di quel lasciar correre son figlie tutte le ondate di crisi finanziarie che hanno flagellato gli anni dieci del XXI secolo, agevolate dall’abrogazione nel 1999 da parte di Bill Clinton del Glass- Steagall Act che conteneva le speculazioni finanziare, legge che Barack Obama tentò poi inutilmente di reintrodurreè vero che il primo a lasciar liberi gli animal spirits delle Big Tech (Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook e oggi anche Paypall) fu un liberal democratico come Bill Clinton, in anni - i Novanta- in cui si doveva incoraggiare lo sviluppo di Internet “alleggerendo” le aziende da obblighi e responsabilità. Anche per questo, probabilmente, le aziende di quelle antiche aree rurali e semidesertiche come la Silicon Valley, oggi diventata l’Eldorado degli algoritmi, hanno sempre “votato” democrats. Memori anche forse di quando invece lo speaker repubblicano del Congresso Newt Gingrich tentava di imbrigliare il world wide web con lacci e lacciuoli.

Oggi tutto appare cambiato. In un sistema elettorale per le presidenziali come quello americano contano più le preferenze e il sostegno dei grandi donatori che non i sondaggi: le donazioni sono considerate un indice di gradimento più affidabile degli orientamenti espressi dagli elettori. E il grande tema di questa campagna elettorale statunitense è proprio il ri- orientamento, invece, verso Trump.

I primi, certo, a schierarsi apertamente per The Donald sono stati Elon Musk di Tesla, di Space X e di X (l’ex Twitter), e Peter Thiel di Paypal: entrambi di origine sudafricana, entrambi negazionisti climatici, Musk anche anti-gender avendo traslocato in Texas dalla California per “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, e cioè la legge pro- transgender. Entrambi più populisti di destra anti- sistema che non libertari. Il fondatore di Paypal, in particolare, sarebbe l’uomo che ha persuaso Trump a scegliersi come candidato vicepresidente quel J. D. Vance che nasceva come antitrumpista sfegatato ma che per Trump può essere la via per la vittoria, grazie alla narrazione autobiografica (anche attraverso il bestseller “Elegia Americana”) del maschio bianco americano che nasce nel ghetto e, per aspera ad astra, assurge alle vette della fama e della ricchezza. Musk e Thiel teorizzano l’ impraticabilità delle democrazie liberali, e sognano di sostituirle con una specie di Spectre, un governo mondiale delle Big Tech, che sarebbero le uniche in grado di garantire sviluppo e benessere.

Soprattutto in vista delle nuove opportunità che apre l’Intelligenza Artificiale. Si noti, in proposito, che le democrazie liberali di tutto l’Occidente sono all’opera invece, e anche con l’opera delle organizzazioni multiculturali, per gestire l’IA, in modo da evitare utilizzi rischiosi. Alle spalle, certo, Musk e Thiel hanno le teorizzazioni da Chicago Boys, secondo le quali in buona sostanza la ricchezza, un volta creata dall’imprenditore o dal finanziere poi finisce per redistribuirsi automaticamente un po’ su tutti, e se non proprio su tutti è perché qualcuno non se lo deve esser meritato, evidentemente.

In realtà, visto che le Big Tech non redistribuiscono e non restituiscono alle società in cui operano se non una goccia dei loro immensi profitti, cosa che costituisce il contratto sociale alla base di tutte le rivoluzioni industriali che si sono succedute nei secoli, e che non a caso sono nate sempre e solo all’ombra di sistemi democratici, ciò che alletta i moghul delle nuove tecnologie è la convinzione che Trump le mani nelle loro tasche non le metterà mai. Di più: che non metterà mai il naso nei loro affari. Se è tutto da vedere che Donal Trump una volta riappropriatosi della Casa Bianca seguirà le strategie di qualcun altro, Vance o Musk o Thiel che sia, di certo non sarà per loro un elemento di disturbo, anche perché il solo Musk versa a Trump contributi per 45 milioni di dollari al mese.

Una prima controprova è in recenti sentenze della Corte Suprema a maggioranza trumpista che ha stabilito che sono le aziende di Internet a dover stabilire cosa può o non può essere pubblicato sui social, secondo le proprie regole interne e non secondo le varie norme federali. Facebook, X, Instagram e compagnia cantante, insomma, sotto certi aspetti sono già ben al di sopra della legge. Come si considera, del resto, anche lo stesso Trump.