Anche in Paradiso c’è aria di tempesta. L’insicurezza e l’incertezza dominano dappertutto, i migranti sono indesiderati in tutte le nazioni dell’Occidente. Anche dove proprio non te lo aspetti, nel Pacifico del sud. Con conseguenze politiche inusuali. Il 27 agosto del 2017 si sono tenute le elezioni per il rinnovo della Camera dei rappresentanti in Nuova Zelanda, alla parte precisamente opposta del mondo rispetto all’Italia. Da allora a Wellington, capitale neozelandese, governa una “strana coalizione”, composta dal Partito laburista, di sinistra, dai Verdi, ecologisti e progressisti, e da New Zealand First ( il nome è proprio così), la locale formazione nazionalista e populista. La “strana coalizione’” è guidata da una donna battagliera, la leader del Labour, Jacinda Arden.

Lo scorso 18 maggio, invece, ci sono state elezioni federali per la Camera dei rappresentanti e il Senato in Australia: e lì in modo inaspettato, ha rivinto la coalizione di destra, composta dal locale Partito liberale e dal Partito nazionale, guidata dal primo ministro uscente, Scott Morrison.

Sono due consultazioni elettorali molto diverse, ma entrambe con un risultato imprevisto ed entrambe coinvolgono tendenze populiste: a Wellington, i nazionalisti populisti locali si sono uniti al governo con le sinistre lasciando a bocca asciutta il National Party liberal- conservatore; a Canberra l’insorgenza nazionalista ha preso la forma del leader della coalizione di destra che ha lasciato ancora una volta per strada la sinistra locale, anche in quel caso composta da due componenti, i Laburisti e i Verdi. Insomma all’altro alto del mondo abbiamo due sbocchi politici alternativi per una tendenza globale che attraversa quasi tutto il mondo “occidentale”, dal Nordamerica fino al Pacifico meridionale.

Andiamo a Wellington. La Nuova Zelanda è un dominium britannico. Il capo dello stato è la Regina Elisabetta II° rappresentata localmente da un Governatore Generale. E’ una monarchia parlamentare di stile Westminister, con un primo ministro sulla tolda di comando anche se in realtà il sistema politico neozelandese si è differenziato molto dal “modello inglese”. Dal 1909 al 1996, il meccanismo elettorale era quello tipicamente britannico, uninominale a turno unico, e il sistema politico era emblematico a due partiti, Partito nazionale di orientamento liberal- conservatore, e Partito laburista, di sinistra. Ma nel 1996 i neozelandesi decisero un profondo cambio politico con l’introduzione di un meccanismo elettorale misto con una parte dei parlamentari eletti nei collegi e un’altra parte per liste di partito, ma con una attribuzione generale di tipo proporzionale a parte una soglia del cinque per cento. Da allora, il sistema politico è diventato multipartitico, con cinque o più formazioni nella Camera dei rappresentanti.

Nel 2017, la coalizione conservatrice, composta dai nazionali e da tre partiti minori, tra i quali quello rappresentativo dei Maori, la popolazione indigena delle due isole maggiori della Nuova Zelanda, Isola del Nord e Isola del Sud, è stata sconfitta, con la scomparsa degli piccoli partiti alleati. Il National Party conquistò 56 seggi, perdendone tre ( su un totale di 120 componenti della Camera), mentre i Laburisti ne presero 46 ( contro i 32 delle consultazione precedente). New Zealand First, i nazionalisti populisti, ebbero 9 seggi ( tre in meno), i Verdi 8 ( ne hanno persi 6).

Il 19 ottobre, il leader dei nazionalisti, Winston Peter annuncia che il suo partito è pronto ad un governo con i Laburisti, con la leader del Labour Jacinda Arden come premier: è la terza volta che una donna è primo ministro in Nuova Zelanda, e d’altra parte il paese è stato il primo al mondo, nel 1893, a dare il diritto di voto alle donne! In effetti, i nazionalisti di NZ First, nonostante la perdita di qualche seggio, diventano l’ago della bilancia del sistema politico: e decidono di preferire la sinistra laburista alla destra liberale. La coalizione Laburisti- nazionalisti viene allargata ai Verdi. Nasce così la “strana alleanza” che da allora governa a Wellington. I dubbi sulla validità e le possibilità di progresso di un tale governo, che viene subito definito «governo del cambiamento», sono tanti per le evidenti differenze fra i tre partner di governo e per le sfide politiche che essi devono immediatamente affrontare. La principale è quella relativa alla ratifica del TPP. Il TPP, o l’Accordo Transpacifico, è l’intesa economica e commerciale che riunisce una parte significativa di paesi che hanno sponde sull’Oceano Pacifico.

In origine, il TPP era guidato dagli Stati Uniti, con Barack Oba- ma alla Casa Bianca, e dal Giappone. Con l’avvento dell’amministrazione Trump, Washington decise l’uscita dal trattato commerciale. Il Giappone, assieme agli altri paesi interessati all’iniziativa come la Nuova Zelanda, decisero di andare comunque avanti, senza gli Stati Uniti. I partner della “strana coalizione” erano tutti critici per alcuni aspetti del libero scambio così concepito quindi c’era qualche dubbio sul comportamento del nuovo governo. Invece la ratifica del trattato da parte di Wellington fu tranquilla a riprova del pragmatismo politico della nuova coalizione al potere. La continuità con alcune scelte chiave aveva vinto.

La “strana coalizione” sta andando avanti riscuotendo un certo successo presso la pubblica opinione nazionale. I tre partner cercano di soddisfare le rispettive basi sociali: i laburisti hanno fatto approvare l’aumento del salario minimo e hanno ripreso a finanziare il Fondo pensioni che era stato creato dall’ultimo governo laburista ma era stato differito dal governo conservatore. I laburisti hanno inoltre voluto implementare un grosso programma edilizio per 100mila case in 10 anni. Insomma la sinistra ha portato avanti tre tipici programmi sociali.

I nazionalisti invece hanno ottenuto il divieto dell’acquisto di case da parte di stranieri non residenti. Infine i Verdi hanno ottenuto da parte loro la sospensione delle perforazioni off- shore di petrolio e gas. Tutto è stato ovviamente favorito da un budget solido e da una economia con un buon tasso di crescita e un basso tasso di disoccupazione. Come dicono a Wellington, nonostante le differenze di opinione tra i tre partiti, il senso delle istituzioni che sembra contraddistinguerli, sembra essere in grado di evitare crisi e conflitti seri. Il primo ministro d’altra parte è riuscita ad avere un ottimo standard internazionale: la politica estera del nuovo governo appare non in sintonia con l’alleato più importante, gli Stati Uniti dell’attuale amministrazione Trump. Fra i partners dei Five Eyes ( l’alleanza di intelligence più potente al mondo, tra i servizi di Usa, Regno Unito, Canada, Australia, e appunto Nuova Zelanda), il miglior alleato di Jacinda Ardern è il primo ministro liberale progressista canadese Justin Trudeau.

Insomma a Wellington Laburisti, nazionalisti e Verdi hanno stipulato un efficace “contratto di governo” per un “governo del cambiamento” che sembra funzionare grazie ad un bilancio pubblico in ordine e a un forte senso delle istituzioni.

Passiamo a Canberra, capitale federale del Commonwealth Australiano. L’Australia ha appena 25 milioni di abitanti, che risiedono nel sesto paese al mondo per grandezza. E’ un intero continente. E’ anch’essa un dominium britannico e ha anch’essa come Capo dello Stato, Elisabetta II°, rappresentata da un Governatore Generale. E’ uno stato federale, con un Parlamento bicamerale, Camera dei Rappresentanti e Senato; ogni stato ha il suo Parlamento e il suo premier. Il governo federale è guidato dal primo ministro. I due partiti maggiori, anche a Canberra come a Wellington, sono i conservatori, che costituiscono la Coalizione Liberali- Nazionali e i Laburisti. Ma anche il sistema politico australiano negli ultimi anni è dominato da una frammentazione sempre più insistente: i Verdi sono il più importante dei “partiti minori”.

Nel maggio scorso, i sondaggi pre- elettorali davano un leggero vantaggio ai Laburisti, ma il risultato è stato diverso: la coalizione di destra ha conquistato 77 seggi ( contro i 74 precedenti), i laburisti hanno perso un seggio, ottenendone solamente 68, i Verdi, nonostante il 10,2 per cento dei voti popolari, hanno conquistato un solo seggio. Il sistema elettorale esistente è un uninominale a mezza strada fra turno unico e doppio turno: nei singoli collegi, gli elettori danno la preferenza in ordine inversa di preferibilità a tutti i candidati. Vince chi ottiene più prime preferenze: se non c’è nessuno con una tale maggioranza, si elimina il candidato arrivato ultimo e si danno le sue seconde preferenze agli altri candidati e così via.

Il meccanismo è un po’ complicato ma efficace: alla fine i cittadini scelgono non il candidato del partito preferito, ma quello meno lontano dalla maggioranza di quel distretto. Negli ultimi anni, i partiti “minori” hanno iniziato ad avere uno spazio maggiore, ma alla fine le due formazioni più importanti continuano ad imporre il loro gioco politico. Il sistema politico quindi rimane fondamentalmente bipartitico ma con una accentuata frammentazione e una forte polarizzazione. Il sistema istituzionale australiano è bicamerale: la Camera dà la fiducia al governo, il Senato partecipa al processo di approvazione delle leggi ed è eletto su base proporzionale. E’ difficile che la coalizione di governo controlli appieno anche il Senato e ciò garantisce un equilibrio del potere come d’altra parte fa anche l’ordinamento federale.

L’instabilità politica è tale che negli ultimi sei anni i conservatori hanno cambiato per ben tre volte leader e primo ministro ( in questo periodo, da quando i Laburisti hanno perso, dopo il periodo di governo di Kevin Rudd e Julie Gillard, la coalizione di destra ha dominato il paese): nel 2013 diventa primo ministro Tony Albott, un esponente dell’ala più conservatrice, che però viene defenestrato nel 2015. A quel punto Malcom Turnbull un moderato centrista assume il potere e lo tiene fino all’anno scorso, quando ad agosto il partito liberale per paura dell’insorgenza nazionalista e populista che minaccia l’Australia sceglie il conservatore di destra Scott Morrison.

Quasi tutti pensavano che non ci fosse possibilità stavolta per il leader conservatore e invece i Laburisti ancora una volta sono riusciti a perdere. Non è la prima volta che la destra a Canberra si mostra molto più ostica di quello che gli osservatori pensano. Storicamente conservatori e laburisti battagliano con forza, anche perchè rappresentano due Australie diverse, quella più anglosassone, i conservatori, quella di lontana immigrazione europea, irlandese in primo luogo, i laburisti.

Ma dall’era di John Howard, la destra tende ad avere una sostanziale egemonia politica nel paese nonostante il carattere fortemente multiculturale della società australiana: proprio la paura dell’immigrazione incontrollata ha giocato una parte molto importante nei successi della destra. Howard fu primo ministro dal 1996 al 2008, praticamente per quattro mandati. Fu il precursore delle politiche neo- conservatrici di Bush figlio. Fu l’inventore della Pacific solution, la politica di trasportare i richiedenti asilo verso centri di detenzione in alcuni stati insulari del Pacifico del sud: le forze di difesa australiane intercettavano le navi con i profughi che veniva poi trasportati nei centri di Papua o Nauru dove veniva definito il loro status giuridico. La politica della Pacific solution fu chiusa dal successivo governo laburista guidato da Kevin Rudd per essere poi riaperta dalla primo ministro successore, Julia Gillard, anch’essa laburista.

Da allora sono trascorsi oltre dieci anni, ma la politica australiana è in larga parte bloccata ancora sui soliti temi: immigrazione e poi le questioni sociali e quelle dell’ambiente e del clima. L’Australia necessita di grandi riforme. Due fattori sembrano alterare i processi economici di questo grande paese, gli investimenti nell’immobiliare e il peso fortissimo dell’industria basata sui combustibili fossili. Molti cittadini hanno avuto un fortissimo timore che un governo di sinistra intervenisse in questi due ambiti: basta pensare che l’investimento nell’immobiliare sia fondamentale per i pensionati. E ciò assai probabilmente ha giocato pesantemente contro il Partito laburista. Ma l’Australia necessita di riforme e cambiamenti: il mercato immobiliare potrebbe avere una grave crisi e l’industria fondata sui fossili deve cambiare strada. Ma per questa volta, gli interessi più conservatori hanno vinto e l’Australia deve aspettare ancora per i cambiamenti reali.

Che cosa ci dicono neozelandesi e australiani? In primo luogo, le paure e le insicurezze sono fortissime anche nel Paradiso del Pacifico del sud: migranti e profughi ne fanno le spese, sia a Wellington sia a Canberra. In entrambi i paesi, ci sono, da tempo, formazioni nazionaliste e populiste significative e quando esse sono “assorbite” come nel caso australiano, la destra conservatrice ne fa proprie pulsioni e istanze. Sia in Australia sia in Nuova Zelanda ci sono formazioni Verdi riformiste e progressiste importanti. Infine, mentre Wellington ha trovato una strada “strana” grazie anche ad un sistema elettorale proporzionale con la sinistra al timone, Canberra continua a preferire la destra. Benvenuti in Paradiso!