Il ministero degli Esteri di Ankara «condanna fermamente la cittadinanza onoraria data a Abdullah Ocalan, leader del terrorismo, dall’Assemblea comunale di Berceto, una città in provincia di Parma nella regione italiana dell’Emilia Romagna».

È l’ 8 ottobre, poche ore prima dell’invasione turca nel Nord della Siria volta ad annientare le forze curde present sul territorio, e l’ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani viene convocato dal ministro degli Esteri di Erdogan per esprimere lo sdegno del governo turco.

Al centro della contesa: Berceto, comune di 2mila anime in provincia di Parma, “colpevole” di aver concesso la cittadinanza onoraria ad Ocalan, “Apo” ( lo “zio”), leader storico del Partito dei lavoratori curdi ( inizialmente di ispirazione marxista- leninista), “ospitato” in un carcere di massima sicurezza dal 1999. È considerato il padre dell’indipendentismo curdo sia dal Pkk che dallo Ypg, l’organizzazione gemella attiva sul territorio siriano, famosa per aver fronteggiato e sconfitto sul campo l’Isis, contro cui in queste ore si concentrano le attenzioni turche.

Ma quello tra Ocalan e l’Italia ( cittadino onorario anche di Palermo, Napoli, Reggio Emilia e Riace, solo per citarne alcune) è un intreccio sedimentato nel tempo, che affonda le sue radici nella Seconda Repubblica. Dopo aver vagato tra Siria e Russia per sfuggire ai servizi segreti turchi che gli danno la caccia, “Apo” arriva a Roma 12 novembre 1998 a bordo di un aereo proveniente da Mosca. A “scortarlo” è Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione comunista, che lo accompagna in Italia col tacito assenso del governo D’Alema, in carica da poche settimane.

Il leader curdo si consegna alle autorità italiane nella speranza di ottenere l’asilo politico. Iniziano 65 giorni fittissimi di tensioni e trattative tra Roma e Ankara che pretende di avere in consegna quello che i turchi ritengono il capo dell’organizzazione terroristica più pericolosa del paese. Ma l’Italia non può estradare nessuno verso paesi in cui vige la pena di morte.

E nella Turchia del 1999 la pena capitale è ancora una realtà. D’Alema cerca una via d’uscita per scongiurare il boicottaggio dei prodotti italiani minacciato dalle autorità di Ankara. Del resto, anche il cancelliere Gerhard Schröder, che potrebbe chiedere l’estradizione del capo del Pkk, in virtù di un mandato di cattura spiccato da Berlino, se ne lava le mani ed evita di chiedere in consegna il “prigioniero” per non irritare la folta comunità turca presente sul territorio tedesco. Il governo italiano cede. E “convince” Ocalan ad abbandonare volontariamente Roma.

È il 16 gennaio 1999 quando il leader curdo sale su un aereo diretto a Nairobi, protetto dai servizi segreti greci, fin dalla prima fuga garanti dell’incolumità di “Apo”. Ma l’ultima latitanza dura poco, un mese dopo, il 15 febbraio Ocalan viene catturato dall’intelligence turca e trasferito immediatamente nella piccola isola di Imrali, da allora trasformata in un carcere di massima sicurezza per un solo detenuto.

In Italia le reazioni sono veementi, in tutto il paese i simpatizzanti del Pkk si mobilitano, organizzando manifestazioni che a volte sfociano in scontri violenti. Ma gli avvocati di Ocalan, tra cui Giuliano Pisapia, non rinunciano alla battaglia legale, iniziata con la richiesta di asilo politico, che potrebbe salvare la vita al padre dell’indipendentismo armato curdo, ne frattempo condannato a morte.

E, come per una beffa del destino, il Tribunale civile di Roma si pronuncia a favore della protezione internazionale nei confronti del leader del Pkk. Ma è troppo tardi, è l’ottobre del 1999 e Ocalan è già da tempo nelle mani delle autorità turche, che qualche anno più tardi, nel 2002, aboliscono la pena di morte e commutano in ergastolo la condanna al prigioniero eccellente.

E poco importa che negli anni “Apo” abbia abbandonato il radicalismo e si sia fatto promotore del processo di pace, ordinando un “cessate il fuoco” unilaterale nel 2013. Per turchi Ocalan resta il simbolo del terrorismo, la testimonianza vivente dell’aspirazione curda a diventare Stato da cancellare. Un’ingiustizia, secondo il sindaco della piccola Berceto, Luigi Lucchi, convinto che «quando si difendono i diritti non si deve avere paura».