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«Per aiutarli a casa loro, come dice qualcuno, potremmo cominciare a non appoggiare più qualche dittatore». Per Alfonso Giordano, professore di Geografia politica alla Luiss di Roma, l'immigrazione è un fenomeno troppo complesso per essere liquidato con uno slogan o un tweet.
Professore, anche la presidente Ursula von der Leyen di recente ha chiesto di rivedere le politiche d'asilo per non lasciare sola l'Italia ad affrontare il fenomeno. L'Europa si rende conto della situazione e prova a cambiare approccio?
Bisogna vedere la praticabilità di questa buona volontà, perché in genere i paesi geograficamente lontani dal fenomeno pensano di essere anche lontani dal problema. E poi, come è noto, bisogna affrontare lo scoglio dei paesi di Visegrad, con cui il nostro governo dialogava, ma che, in nome del sovranismo, non sono affatto disponibili a collaborare con l'Italia. Per questo servirebbe più Europa, un organismo politico che avesse la possibilità di infierire, anche solo a livello simbolico, con chi si rifiuta di cooperare. La Commissione dovrebbe avere il potere di estromettere dai vantaggi dello stare insieme chi non ha intenzione di rispettare il patto di solidarietà europeo.
E invece?
Invece, dobbiamo fare i conti con la geopolitica reale. Già qualche tempo fa, nei documenti che circolavano tra Parlamento e Commissione Ue, si cominciava a vedere una nuova contrapposizione geografica: non più Nord- Sud, ma Est- Ovest. Da un lato i paesi occidentali, che da tempo hanno confidenza con queste problematiche, e dall'altra quelli orientali, che invece non vogliono sentir parlare di immigrazione.
Ma per cambiare lo status quo bisogna sedersi a un tavolo, trattare e provare a convincere i partner europei a cambiare Dublino...
Certo, ma noi non ci andiamo. A questo punto nasce il sospetto che si disertino i tavoli perché il problema immigrazione ti sta bene. Non credo però che Matteo Salvini potrà continuare a lungo con questo approccio, i problemi a un certo punto dovrà affrontarli e riguarderanno l'economia.
Da dove proviene la maggior parte dei migranti che arriva in Europa?
I tedeschi fanno più rimpatri di noi perché in Germania arrivano tante persone dal Medio oriente e dal Nord Africa, da paesi con cui ci sono convenzioni che permettono un rimpatrio più veloce. Da noi invece arrivano molti profughi dall'Africa sub sahariana, da paesi in cui in genere non esistono accordi, per questo le promesse elettorali di Salvini si sono rivelate fallimentari. Inoltre, la maggior parte delle presenze nel nostro paese, negli ultimi tempi, non è dovuta agli sbarchi, ma ai migranti rispediti in Italia da altri Stati, dalla Germania soprattutto, in virtù di Dublino. È necessario sedersi a un tavolo e discutere. Perché se non si raddrizza in qualche modo Dublino salta anche Schenghen.
In Italia sono sbarcate meno di quattromila persone nei primi otto mesi dell'anno. Può essere considerata un'emergenza?
Questa è solo un'emergenza comunicativa, nient'altro. Essendo ormai l'informazione diretta, non mediata dai giornalisti, ognuno racconta con le proprie mani la realtà che gli fa comodo tramite social network. I problemi reali sono altri: corruzione e inefficienze su tutto.
Due anni fa, nel 2017, nello stesso periodo dell'anno, erano arrivate sulle nostre coste oltre 95mila persone.
Appunto, è una cosa ridicola parlare adesso di emergenze. Se un paese come l'Italia non riuscisse davvero a gestire poco più di tremila persone sarebbe un problema serio. La questione è evidentemente di natura politica. Ed è giusto chiedere un impegno all'Europa, ma bisogna scegliersi gli interlocutori giusti. Non credo che litigare con la Francia, per quanto Macron possa stare legittimamente antipatico, rientri nel nostro interesse. Se proprio vogliamo identificare qualche responsabile della mancata collaborazione bisogna cercare tra i paesi dell'Est, nel blocco di Visegrad, alleati di Salvini. È il paradosso del sovranismo: si cercano interlocutori simili, ma i sovranisti tra loro non possono andare d'accordo.
Se andiamo a guardare i numeri impressionanti dell'accoglienza in Germania, con oltre un milione di rifugiati, la polemica con Berlino sembra campata in aria.
Non c'è nemmeno paragone, a guardare i numeri siamo fuori dal mondo. Il problema riguarda la percezione del fenomeno, che ahimè conta, non c'è nulla da fare. E in passato la politica a sottostimato la questione.
Domanda impopolare: davanti a masse di individui che si spostano comunque, ha ancora senso distinguere tra migranti economici e profughi di guerra?
Le faccio un esempio. Tempo fa nel corso di un incontro internazionale tra esperti del fenomeno, alcuni di noi chiesero alle organizzazioni internazionali come mai non si impegnassero a far pressione sugli Stati perché estendessero la Convenzione di Ginevra anche ai migranti economici o a quelli ambientali. Ci risposero: non lo facciamo perché temiamo che se apriamo questo fronte gli Stati restringeranno ulteriormente le maglie dell'accoglienza.
L'unica soluzione è arrendersi a un esercito di fantasmi senza identità per le strade europee?
Il discorso è più ampio. Esistono problemi effettivi di organizzazione statale e di sicurezza dei cittadini. Perché il problema non è quante persone riusciamo a far entrare ma quante ne riusciamo a integrare, soprattutto da quando le migrazioni non sono più intra- europee, come avveniva negli anni Cinquanta, ma riguardano popolazioni provenienti da altri continenti. E in Europa non più forte come un tempo, invecchiata e che sente il declino, il tema dell'integrazione resta prioritario.
Salvini, ma non solo lui, ripete spesso lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Solo propaganda o è una possibile alterativa?
Se vogliamo che queste persone non si spostino qualcosa possiamo farlo. Per esempio, potremmo smetterla di appoggiare alcuni dittatori. Questo però significa anche avere qualche perdita, come meno facilità nell'approvvigionamento di alcune forniture. Ma dovremmo anche accettare la competizione di questi paesi, cioè farli entrare in sistemi di libero scambio, cosa che non facciamo. Perché, puntualmente, i sovranisti pretendono di bloccare i flussi ma non vogliono la competizione. Ma bisogna scegliere: o si accetta il confronto o si accettano le migrazioni.
Tripoli può essere considerata un porto sicuro, come dice qualcuno?
Mi rifiuto di rispondere perché è evidente che non è così. C'è una guerra in corso e campi di concentramento dove la gente viene torturata. Non c'è nessuna possibilità di affermare che Tripoli sia un porto sicuro: lo dice l'Onu, lo dicono le agenzie internazionali, lo dicono le persone che scappano, lo dicono i fatti.
Dove devono sbarcare allora queste persone?
Il punto è di natura geopolitica. Su quel pezzo di mare ci sono tre sovranità. Quella libica, che evidentemente è carente e della quale faremmo bene a non fidarci, visto come trattano le persone. Poi c'è quella di Malta, che però ha un'estensione di zona di recupero e salvataggio venti volte superiore alla capacità di poterla gestire. Tra l'altro Malta, in relazione alla popolazione, accoglie il triplo delle persone che accogliamo noi. E infine ci siamo noi, l'unico paese grande, con spazio e con mezzi, che si sta sobbarcando anche le altre due fasce. Ed è per questo dovremmo tendere a europeizzare queste operazioni nel mare, il contrario del sovranismo.
Servirebbero corridoi umanitari europei?
Sì, assolutamente. Nel disaccordo tra paesi europei si infilano le organizzazioni criminali. Se ci fosse una rete di controllo europea su quell'area del Mediterraneo, capace di organizzare corridoi umanitari, i traffici sparirebbero. Bisogna avere il coraggio di gestire gli ingressi. Ovviamente, facendo una selezione all'origine.
E come si opera una selezione all'origine?
Dando più potere alle organizzazioni internazionali, come l'Onu, oggi indebolite dai continui attacchi. Gli americani non vogliono più fare il gendarmi del mondo, a meno che non sussista un precipuo interesse nazionale. Né la Cina ha interesse a smuovere le carte, visto che Pechino prolifera sugli accordi bilaterali, governo con governo. Il gioco degli anni della cooperazione è saltato. E non solo per una questione filosofica, ma perché si sono affacciati dei player sullo scacchiere internazionale che non hanno alcun interesse a seguire gli schemi del passato. È venuto meno l'assioma “democrazia uguale ricchezza” e questo cambia tutto. Ma servirebbe tornare al compromesso come metodo operativo.
M5S e Lega hanno definito «taxi del mare» le navi delle Ong. Come giudica questa definizione?
Una balla totale. Secondo i dati del Viminale e dell'Unhcr, diffusi dal ricercatore dell'Ispi Matteo Villa, solo il 5 per cento dei migranti sbarcati viene salvato dalle Ong. Non solo, verificando i singoli giorni del mese, si scopre che senza navi umanitarie in mare si registrano in alcuni casi anche numeri maggiori di partenze. Insomma, non c'è alcuna correlazione tra Ong e sbarchi.