Il 31 luglio scorso gli utenti marocchini del social network X si sono imbattuti in un post che ha immediatamente suscitato scalpore e reazioni contrastanti. L’immagine ritraeva una donna con una maglietta recante una scritta inequivocabile: «Allah è lesbica». In un Paese musulmano come il Marocco l’effetto è stato dirompente. Autrice del post, Ibtissame “Betty” Lachgar, psicologa cinquantenne e soprattutto storica attivista femminista del Paese.

La reazione delle autorità non si è fatta attendere. Il 1° agosto la donna è stata arrestata e imprigionata, per poi comparire martedì scorso in aula di tribunale. Le accuse si fondano sull’articolo 267- 5 del codice penale marocchino, che punisce «chiunque danneggi la religione musulmana» con pene da sei mesi a due anni di carcere. La condanna, tuttavia, potrebbe arrivare fino a cinque anni poiché il presunto reato è stato commesso in pubblico, e la legge considera come tale anche l’uso di strumenti elettronici.

Ad aggravare la posizione di Lachgar non è stata solo la maglietta, ma anche il commento che accompagnava la foto: l’Islam, «come ogni ideologia religiosa», è «fascista, fallocratico e misogino». Un attacco frontale che ha immediatamente acceso la miccia. Dopo la pubblicazione, centinaia di utenti hanno invocato il suo arresto. L’attivista ha denunciato di aver ricevuto migliaia di messaggi di minaccia: insulti, inviti allo stupro, alla lapidazione, al linciaggio. Una vera e propria campagna d’odio che ha finito per trasformarsi in azione giudiziaria. Secondo l’Associazione marocchina per i diritti umani ( AMDH), l’arresto sarebbe stato sollecitato da un tweet di El Mostapha Ramid, ex ministro della Giustizia e figura di spicco dell’islam politico. Ramid aveva scritto che «quando si tratta di attacchi ai simboli sacri della religione, e questo viene fatto in modo deliberato e pianificato, nessuna tolleranza è possibile» perché «il Marocco ha leggi e istituzioni per proteggere i suoi valori fondamentali».

Un messaggio interpretato come una vera e propria pressione sulle autorità giudiziarie. In Francia, il collettivo femminista Les Chiennes de Garde e la redazione di Charlie Hebdo hanno espresso solidarietà a Lachgar, definendo «vergognoso» l’arresto. In Marocco piccoli gruppi di attivisti hanno organizzato sit- in per chiederne la liberazione, mentre online si è moltiplicata la campagna a sostegno con l’hashtag # FreeBetty.

Il 13 agosto la sua avvocata, Naïma Elguellaf, ha chiesto il rinvio del processo per preparare la difesa e una scarcerazione provvisoria, sottolineando i problemi fisici della sua assistita. Un parente l’ha descritta come «sopravvissuta al cancro e bisognosa di cure», elementi che renderebbero rischiosa la permanenza in carcere. Elguellaf ha inoltre ricordato come la donna non rappresenti «alcuna minaccia diretta alla sicurezza altrui», chiedendo dunque misure meno restrittive. Il tribunale, tuttavia, ha respinto l’istanza, aggravando ulteriormente la situazione.

La vicenda si inserisce in un contesto politico e giudiziario più ampio. In Marocco la libertà d’espressione è formalmente riconosciuta dalla Costituzione del 2011, ma trova limiti invalicabili quando entra in collisione con tre pilastri: la monarchia, l’unità territoriale e la religione islamica. Gli articoli 220, 222 e 267 del codice penale stabiliscono pene severe per chiunque “offenda” o “minacci” questi valori. Negli ultimi anni diversi giornalisti, blogger e attivisti sono stati incriminati sulla base di questi articoli, sebbene raramente con la risonanza mediatica suscitata dal caso Lachgar.

La storia personale dell’attivista spiega la durezza della reazione. Nel 2009 Lachgar ha co- fondato il Movimento alternativo per le libertà individuali (Mali), noto per iniziative dirompenti come il picnic organizzato durante il Ramadan per difendere il diritto a non digiunare e contestare l’articolo 222 del codice penale. Da allora il movimento ha promosso campagne contro la violenza di genere, i matrimoni precoci e la pedofilia, attirando spesso l’attenzione delle autorità. Nel 2016 Lachgar fu arrestata a Rabat per “disturbo dell’ordine pubblico”, un provvedimento

ritenuto infondato da molte ONG. Nel 2018, dopo una campagna pro- aborto, fu nuovamente fermata e trattenuta per 24 ore, con l’aggiunta di un’accusa di ubriachezza. La sua figura divide profondamente l’opinione pubblica marocchina. Per i sostenitori è un simbolo di resistenza laica e femminista in un Paese che non ha ancora compiuto una vera transizione sui diritti civili. Per i detrattori, invece, è un’attivista provocatoria che cerca visibilità offendendo deliberatamente i valori religiosi e culturali.

La condanna potrebbe avere effetti dirompenti: da un lato consolidare il potere repressivo delle istituzioni su ogni voce dissenziente, dall’altro alimentare la solidarietà internazionale e la pressione diplomatica.