C’è una data precisa che per gli storici segna l’inizio della strategia della tensione in Italia: sono i giorni fra il 3 e il 5 maggio 1965, quando si svolse a Roma, all’Hotel Parco dei Principi, il convegno organizzato dall’Istituto di Studi Militari Alberto Pollio sulla “Guerra Rivoluzionaria”. Il convegno, più che della guerra non convenzionale, si concentrò sulle strategie, effettivamente tutt’altro che convenzionali, con le quali contrastare non solo l’eventuale guerriglia ma qualsiasi forma di avanzata del comunismo.

Il convegno non rimase nel campo delle dissertazioni teoriche. Già l’anno dopo l’Ufficio Affari Riservati del Viminale, guidato da Filippo Umberto d’Amato, organizzò l’affissione di massa di manifesti filocinesi, con l’obiettivo di indebolire il Pci filosvietico. A una quantità di ufficiali furono inviati opuscoli, stilati da Franco Freda, che incitavano le forze armate a costituire Nuclei per la difesa dello Stato.

Il Capo di Stato maggiore della Difesa Giuseppe Aloja promosse nell’esercito i “corsi d’ardimento” per preparare i soldati alla guerriglia. Il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale De Lorenzo, si oppose e lo scontro tra i due generali, combattuto a colpi bassi, facendo scoppiare scandali dall’una e dall’altra parte, portò alla scoperta del dossieraggio di massa operato dal Sifar e poi a quella del golpe minacciato nel 1964 dal presidente della Repubblica Segni.

Nel 1969 il clima politico era ideale per la fioritura di quella strategia. Dopo il golpe in Grecia del 1967 praticamente tutto il sud dell’Europa era costellato da regimi neofascisti. Gli apparati dello Stato adoperavano senza ritegno la manovalanza per operazioni di infiltrazione e provocazione. I neofascisti si prestavano pensando di poter adoperare loro l’alleanza con lo Stato per i propri fini eversivi. Nella situazione di disordine sociale creata dal ’68 l’asse tra apparati dello Stato e neofascisti alzò il tiro.

Il 25 aprile a Milano scoppiarono due bombe, una alla Fiera di Milano, l’altra alla stazione centrale. Erano attentati che miravano a fare rumore, non ancora a fare vittime. L’8 e il 9 agosto esplosero 8 bombe piazzate su altrettanti treni: non ci furono vittime ma una dozzina di feriti. Per tutti gli attentati sono stati condannati Franco Freda e Giovanni Ventura, esponenti dell’estrema destra veneta. Passano di solito per “ordinenovisti” anche se in realtà non facevano parte di Ordine Nuovo.

La bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969 cambiò tutto. Stavolta fu una strage che costò 12 vittime. Tra Roma e Milano esplosero quel giorno altre 4 bombe. Lo Stato perse buona parte della propria credibilità accusando degli attentati un piccolo gruppo di anarchici che risultò poi oltretutto infiltrato sia dai neofascisti di Avanguardia Nazionale che dai servizi segreti. La responsabilità della strage di Freda e Ventura è stata accertata ma i due essendo stati assolti in un processo precedente, non potevano più essere condannati. I legami con un uomo dei servizi come Guido Giannettini, in realtà più un infiltrato fascista nei corpi dello Stato che non il contrario, e con i servizi segreti militari americani, per il tramite di un altro neofascista, Carlo Digilio, sono altrettanto certi. Impossibile invece chiarire se l’ordine della strage sia partito dallo Stato, come è fortemente improbabile, o se siano stati i neofascisti, sentendosi al sicuro per le commistioni con lo Stato a scegliere di alzare il tiro.

La stagione delle stragi e la vera strategia della tensione iniziarono quel giorno. Nei cinque anni successivi ci furono innumerevoli attentati esplosivi di cui 140 di livello superiore. In alcuni casi finì di nuovo in strage, in molti altri ci si arrivò a un pelo. Il 22 luglio 1970, poco dopo l’esplosione della rivolta di Reggio Calabria, venne fatto deragliare, all’altezza di Gioia Tauro, il Treno del Sole. Le vittime furono 6, i feriti 66. In un primo momento il deragliamento fu attribuito a un incidente, ancora oggi le origini della tragedia, che fu comunque dolosa, non sono accertate anche se l’esplosivo appare di gran lunga la più probabile.

Il 31 maggio 1972 un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano. A piazzare la bomba era stato il militante di Ordine Nuovo, passato anche per le file di Avanguardia Nazionale, Vincenzo Vinciguerra. È l’unico reo confesso, ha sempre rifiutato di chiedere misure alternative alla detenzione e ha sempre sostenuto di aver deciso l’attentato come atto rivoluzionario e non come parte della strategia della tensione, in quanto quest’ultima mirava a rinsaldare e non rovesciare il potere costituito.

Il 17 maggio 1973, mentre il ministro dell’Interno Rumor inaugurava davanti alla Questura di Milano il monumento al commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima, Gianfranco Bertoli lanciò una bomba che uccise 4 persone e ne ferì 52. Bertoli era un anarchico e ha sempre sostenuto di aver agito da solo. Era però certamente in contatto con l’area neofasciscista veneta già responsabile della strage di piazza Fontana ed era stato per tutti gli anni ’50 un informatore dei servizi segreti. Prove in grado di portare a condanne non se ne sono però trovate.

La mattanza più grave, fino a quel momento, fu quella del 28 maggio 1974 a Brescia. La bomba esplose nel corso di una manifestazione antifascista, le vittime furono 8, 102 i feriti. È possibile che l’obiettivo fossero i reparti dei carabinieri, che avrebbero dovuto trovarsi nel luogo dell’esplosione. Al termine di una vicenda giudiziaria lunghissima e articolata in tre procedimenti sono stati condannati infine alcuni esponenti della solita cellula neofascista veneta e un informatore dei servizi segreti, Maurizio Tramonte. L’ultimo e più grave attentato si verificò appena pochi mesi dopo, nella notte fra il 3 e il 4 agosto, sul treno Italicus. L’esplosione uccise 12 persone. I neofascisti inquisiti, in particolare Mario Tuti, sono stati tutti assolti.

La definizione “strategia della tensione” rischia di trarre in inganno ed è stata in effetti spesso fuorviante. Sembra indicare una regia unica e un’azione coordinata. La realtà è diversa. In quei cinque anni agirono in Italia nuclei e centrali diversi, spesso privi di collegamenti o legati in modo labile. Di strategia però è lecito comunque parlare perché tutte quelle aree distinte avevano in comune un anticomunismo che non faceva alcuna distinzione tra il Pci e i gruppi rivoluzionari e tutte ritenevano opportuno e possibile uno sbocco autoritario, sia pure in versione tra loro molto diverse, della crisi italiana. Quando fu evidente che quella possibilità non c’era più, dopo la caduta dei regimi in Grecia Spagna e Portogallo e del presidente Nixon negli Usa, la strategia della tensione si chiuse e la violenza politica in Italia prese connotati molto diversi.