Continuano, sulle coste del golfo Persico, i negoziati indiretti tra Israele e Hamas per porre fine al conflitto nella Striscia di Gaza. A frenare la fretta di chi vorrebbe una rapida intesa è intervenuto il ministro degli Esteri qatariota, Majed al-Ansari, secondo cui «è troppo presto per condividere le impressioni sui contatti per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi».

«Non credo di poter fornire una tempistica al momento, ma posso dire che ci vorrà del tempo», ha proseguito al-Ansari, «quello che sta succedendo in questo momento è che entrambe le delegazioni sono a Doha. Stiamo parlando con loro separatamente del quadro per un accordo. Quindi i colloqui non sono ancora iniziati, ma stiamo parlando con entrambe le parti di un quadro negoziale». Il Qatar è impegnato nel «cercare di ridurre le distanze tra di loro, colmare le lacune e preparare il terreno per colloqui che siano significativi», ha concluso il ministro.

In base alle rivelazioni di una fonte informata, citata dal quotidiano qatariota Al Araby Al Jadeed, le tematiche sul tavolo negoziale sono l’elenco degli ostaggi israeliani che Hamas dovrebbe rilasciare nel corso della tregua, il ritiro delle Forze di difesa israeliane (Idf) dalla Striscia di Gaza e il futuro ruolo degli Stati Uniti a Gaza. Secondo la fonte il Movimento islamista palestinese si starebbe rifiutando di fornire i nominatavi degli ostaggi israeliani. Il motivo del rifiuto sarebbe che Israele non ha ancora indicato la mappa del ritiro dell’Idf dalla Striscia. Hamas inoltre starebbe guadagando tempo per ottenere la garanzia che gli Stati Uniti non intervengano nel conflitto al fianco di Israele una volta scaduta la tregua di 60 giorni prevista dalla bozza dell’accordo.

Ci sarebbero progressi invece sulla clausola per l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia. Hamas chiede che, nel corso della tregua, gli aiuti continuino ad entrare a Gaza tramite i canali delle Nazioni Unite e non siano gestiti dalla Gaza Humatarian Foundation. Il Qatar si è invece opposto alla «città umanitaria» a Rafah, proposta dal ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, in cui sarebbero rinchiusi circa 600mila palestinesi. Nonostante sul campo continuino i combattimenti, le trattative stiano richiedendo tempo e le posizioni espresse dalle due delegazioni appaiano ancora lontane, da Tel Aviv arriva un segnale che dovrebbe dare speranza.

Un alto funzionario, citato da Lapresse a condizione dell’anonimato, ha affermato che l’80-90% dei dettagli della tregua è stato discusso e che un accordo potrebbe vedere la luce nei prossimi giorni. Un altro segnale d’avvicinamento alla soluzione della guerra potrebbe essere la visita dell’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che dovrebbe recarsi a Doha tra venerdì e sabato ma solo se tutte le parti partecipanti alle negoziazioni, si intendono quindi anche i mediatori qatarioti ed egiziani, avranno concordato una formula finale per siglare l’accordo di cessate il fuoco. Cauto ottimismo arriva anche dalla Casa Bianca.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha espresso fiducia per i risultati che dovrebbero scaturire dalle consultazioni, «Non penso che ci sia uno stallo nei negoziati, credo che le cose stiano andando bene», ha dichiarato Trump nel corso della cena con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Durante la cena Netanyahu ha consegnato a Trump una copia della lettera inviata al Comitato per il Nobel, nella quale il primo ministro israeliano ha proposto la candidatura del presidente degli Stati Uniti per l’assegnazione del prossimo premio Nobel per la pace. Nella missiva Netanyahu, destinatario di un mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ha lodato «la costante ed eccezionale dedizione del Presidente Trump nel promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità nel mondo».

Il premier israeliano ha incontrato nuovamente il presidente Usa in serata. «Dobbiamo risolvere la questione. Gaza è una tragedia», ha detto Trump annunciando il secondo incontro con Netanyahu, «Voglio risolverla, e credo che anche l’altra parte voglia farlo». Tra le file dell’esecutivo israeliano però c’è chi sembra non volere la pace. «Chiedo al primo ministro di richiamare immediatamente la delegazione che è andata a negoziare con gli assassini di Hamas a Doha», ha scritto su X il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, «Non si tratta con chi uccide i nostri soldati, bisogna schiacciarli, affamarli fino alla morte e non rianimarli con aiuti umanitari che gli danno ossigeno».

Secondo Ben Gvir «assedio totale, pressione militare, incoraggiamento all'emigrazione e insediamenti ebraici sono le chiavi per risolvere il conflitto». Pronto gli ha fatto eco il ministro delle finanze, Bezazel Smotrich, «Coloro che, spinti dal dolore e dalla miopia, invocano la resa al nemico e la cessazione dei combattimenti prima che vengano distrutti», ha dichairato Smotrich, «Dio non voglia, porteranno a molto più spargimento di sangue nei prossimi cicli di combattimenti che sicuramente si verificheranno nel prossimo futuro». Gli appelli dei due ministri sono arrivati a seguito della notizia dell’uccisione di 5 soldati israeliani, impegnati in operazioni militari nel nord della Striscia.