Qui non si tratta nemmeno di distinguere “l’uomo dall’artista” citando per la milionesima volta Caravaggio, pittore sublime nonché violento omicida oppure l’antisemita Céline, il razzista Conrad e così via. Il livello è persino più sconfortante.

Stiamo parlando del Festival del cinema di Venezia, del suo direttore Alberto Barbera e di tre cineasti: Woddy Allen, Roman Polansky e Luc Besson ospiti con le loro ultime opere nella rassegna lagunare. Il giornalista Scott Roxborough, firma di punta e responsabile della redazione europea di The Hollywood reporter, attacca frontalmente Barbera, ritenendo inopportuno aver invitato «tre uomini problematici». In un articolo di fine luglio era stato ancora più esplicito, definendo i registi «tre predatori sessuali».

Roxborough cita le parole della francese Ursula Le Menn, attivista del gruppo Oser le feminisme, che lo scorso maggio aveva lanciato appelli per boicottare il festival di Cannes a causa della presenza di Johnny Depp, anche lui accusato di abusi sessuali. «Solo il fatto di averli invitati sembra una celebrazione dei colpevoli!», tuona Le Menn per poi scagliarsi contro i giornalisti: «Sembrano degli avvocati difensori e fanno di tutto per mettere questi figuri in una buona luce». Ma colpevoli di cosa? Sarebbe il caso di riavvolgere il nastro dell’indignazione pavoloviana e tornare ai fatti.

Cominciamo da Woody Allen, accusato dall’ex moglie Mia Farrow di molestie sessuali nei confronti della figlia Dylan quando lei aveva sette anni. Due diverse inchieste hanno stabilito la completa estraneità del regista newyorkese che non è mai stato nemmeno indagato. L’indagine dei servizi sociali infantili dello Stato di New York concluse al contrario che la bambina avrebbe vissuto in un ambiente «disturbato», subendo l’influenza della madre che l’ha spinta ad accusare Allen. Ma la macchia di “pedofilo” è rimasta appiccicata al regista che negli scorsi anni ha avuto serie difficoltà per la distribuzione dei suoi film.

Anche Besson è stato prosciolto lo scorso giugno dalle dalla giustizia francese per le accuse di violenza sessuale lanciate dall'attrice belga-olandese Sand Van Roy. Un fatto che non è andato giù alla signora Le Mann il cui fervore accusatorio è pari solo all’ignoranza dello Stato di diritto: «Si dice che Besson è stato dichiarato non colpevole nel caso di stupro, il che semplicemente non è vero. Non è mai stato processato, quindi come potrebbe essere ritenuto colpevole o non colpevole?». Presunzione di innocenza questa sconosciuta.

Diverso il caso di Polansky il quale ha effettivamente ammesso di aver avuto rapporti sessuali sotto l’effetto di droga con la 13enne Samantha Geimer nel 1977 (lui ne aveva 44) ed è attualmente un ricercato per giustizia degli Stati Uniti. Ma è stata la stessa Geimer, che negli anni ha costruito persino un rapporto epistolare con Polansky a voler spegnere i riflettori sulla vicenda intimando ai giornalisti di smetterla di rimestare nel torbido.

Eppure per i corifei del processo mediatico permanente, le sentenze di tribunale e gli stessi sentimenti delle loro amate vittime non contano nulla: «È necessario distinguere tra giustizia e persecuzione» ha ricordato Barbera in una bella intervista a Le Monde in cui ha rivendicato tutte le sue scelte.

Ancora ieri però sul quotidiano Libération è apparsa una disarmante petizione a firma ADA, un’associazione di attrici e attori dal titolo “No alla cultura dello stupro” che chiede l’isolamento di chiunque sia finito nell’obiettivo del #metoo criticando aspramente i direttori dei festival e tutta l’industria cinematografica, colpevole di offrire loro una immeritata vetrina.