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Ci sono voluti decenni. La costruzione della più importante e rilevante banca dati giudiziaria del mondo è costata la fatica di tanti e porta, come sempre, le stimmate insanguinate di Giovanni Falcone che, tra i primi, intuì l’importanza che i dati giudiziari avrebbero assunto nel contrasto al crimine organizzato. In un lucidissimo intervento (ora in «Interventi e proposte (1982- 1992)» a cura della fondazione G. e F. Falcone, Milano, 2010) ebbe chiara la percezione del plusvalore che l’approfondimento giudiziario, le investigazioni del pubblico ministero avrebbero dato alle informazioni provenienti dalla polizia giudiziaria nella fase iniziale delle investigazioni. Si pensi solo alle dichiarazioni testimoniali, ai sequestri di documenti o ai verbali dei collaboratori di giustizia, alle stesse sentenze che confermano o smentiscono per sempre quelle fonti e che sono raccolti presso le 26 procure distrettuali del paese e convogliate, tutte, presso la Direzione nazionale antimafia.
Una fatica. In anni di ostilità, resistenze, veri e propri sabotaggi, vane minacce di procedimenti disciplinari ai non pochi procuratori riottosi sparsi a macchia di leopardo nel paese i cui nomi dovrebbero essere annotati nel libro nero di quanti hanno inteso la lotta alla mafia come una occasione di carriera e non come una battaglia corale. Un successo che ha meriti importanti tra funzionari e magistrati spesso sconosciuti al grande pubblico: giudici come Floretta Rolleri, Alberto Maritati, Vittorio Borraccetti, Carlo Visconti, Giovanni Russo hanno contribuito in modo decisivo alla buona riuscita di un’opera complessa e unica: costruire una enorme banca dati sotto il diretto ed esclusivo controllo dei magistrati.
L’epifania, unica al mondo, della loro autonomia e indipendenza persino dalla polizia giudiziaria e dalle sue pur amplissime banche dati che, praticamente, sono solo una porzione del patrimonio di informazioni accessibili dai magistrati antimafia d’Italia. Nessun altro sistema giudiziario può fregiarsi di questa titolarità che è oramai patrimonio costitutivo della magistratura inquirente italiana. L’attacco che sarebbe stato portato dall’interno alla sicurezza di questa infrastruttura è, per questo, un fatto grave che deve allarmare e rischia di compromettere una fiducia conquistata con sacrifici, anche economici, ingenti e impegno costante. Ci sarebbe attesi attacchi hacker delle mafie, dei gruppi eversivi o terroristici, ma una penetrazione dall’interno e per asserite finalità di dossieraggio politico è un fatto grave.
Se, come pare, l’indagine è stata avviata da un esposto del ministro della Difesa Crosetto e a seguito della divulgazione di dati raccolti – in sede di monitoraggio antiriciclaggio – dall’Unità di intelligence della Banca d’Italia ( UIF) e trasmessi alla Procura nazionale la questione è molto, ma molto più seria di quanto appare. Certo ne è consapevole il procuratore di Perugia che, anche per il suo pregresso ruolo di presidente dell’Autorità anticorruzione, ben conosce le dinamiche di interrelazione informativa tra la Direzione antimafia a partire dalla vecchia Autorità di controllo degli appalti sulle cui fondamenta l’Anac ha preso vita e operatività. Due le questioni importanti sul tappetto.
L’infiltrazione di una struttura informativa strategica di questo livello può cogliersi già solo leggendo l’articolo 8 del decreto legislativo 231 del 2007 che individua la Procura nazionale tra le autorità collocate all’apice del Sistema antiriciclaggio del paese oppure anche semplicemente sfogliando il numero di febbraio 2023 dei «Quaderni dell’antiriciclaggio Analisi e studi» dedicato a «La normativa in tema di prevenzione del riciclaggio: autorità, regole e controlli» curato dall’Unità di informazione Finanziaria (UIF). Certo l’infedeltà supera qualunque schermo e valica ogni protezione informatica; persino il più rigido dei protocolli di accesso è inutile se l’ultima catena operativa, colui che esegue materialmente gli accessi, viene meno ai propri doveri. Ma proprio per questo si rende indifferibile la necessità che il ministero della Giustizia affranchi definitivamente la gestione della banca dati da apporti esterni alla propria rete di selezione e sorveglianza e assicuri quell’autonomia organizzativa, progettuale e gestionale perché sol essa può garantire una maggiore impermeabilità informatica.
Dopo la scandalo del trojan a singhiozzo dell’Hotel Champagne e della scoperta di cloud delle società private nella gestione delle intercettazioni, è ora il momento di scacciare ogni mercante dal tempio delle indagini penali e di rimettere ogni profilo nelle mani esclusive del ministero della Giustizia che, per Costituzione ( articolo 110), è l’unico responsabile della «organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia». La privatizzazione è durata anche troppo a lungo, si pensi solo allo scandalo dei tabulati consegnati a privati e mai più restituiti allo Stato, così come è distonico l’apporto di altri soggetti pubblici i quali, come dire, potrebbero avere (ossia potrebbero avere) interessi divergenti da quelli della magistratura inquirente e compromettere la fiducia e la considerazione conquistata in anni dalla Procura nazionale in questo settore vitale della propria attività.
Il contrasto al riciclaggio è ormai l’unico terreno su cui è possibile ingaggiare il nemico mafioso e combattere l’eversione costituzionale che esso persegue dopo l’abbandono della fallimentare stagione stragista palermitana. Il sistema internazionale della segnalazione delle operazioni sospette (SOS) che comprende anche la rete internazionale delle Unità di intelligence finanziaria ai cui danni si sarebbe verificata l’infiltrazione è probabilmente il ganglio vitale della strategia che - soprattutto dopo le chiare e dure parole del procuratore nazionale Melillo sulla quasi irrecuperabile obsolescenza dei mezzi di intercettazione e dopo l’epilogo del pentitismo di rango – può consegnare risultati importanti per far luce sul quel mondo opaco, meticcio e magmatico in cui evasione fiscale, corruzione, malapolitica e mafie operano servendosi dei medesimi canali di ripulitura del denaro in Italia e all’estero. E qui il discorso non può chiudersi senza rammentare la necessità di una legge sul conflitto d’interessi e sulla trasparenza repubblicana che precluda a soggetti che siano stati posti all’apice di strutture informative di questa ampiezza e delicatezza di dedicarsi a impegni politici, societari, finanziari dopo l’abbandono del proprio incarico e, talvolta, in vista di esso.
Cincinnato ha avuto sempre sporadici seguaci in Italia e aver ricoperto con «disciplina e onore» le proprie funzioni pubbliche, in questi casi, non deve essere un titolo di merito per transitare altrove, ma l’epitaffio della propria vita al servizio dello Stato.