Due energumeni fanno sedere Michael Desiato su un sedia, gli legano le caviglie, i polsi, gli avambracci, le spalle e – dopo avergli chiesto per l’ultima volta se vuole mangiare o almeno bere qualcosa – la testa in modo da tenerla ben ferma e impedirgli di girarsi. Poi gli infilano un sondino nel naso per nutrirlo e idratarlo. Desiato è in prigione e ha smesso di mangiare. Desiato è un personaggio di una serie tv, Your Honour, che ha deciso di lasciarsi morire per motivi che è inutile raccontare e quella è una scena dell’orrore. Sì, certo, serve a non farlo morire. Ma basta a giustificare una operazione invadente e dolorosa e per cui serve un consenso? Sebbene fatta per il suo bene (o meglio, per farlo sopravvivere), non è immorale e inammissibile e ingiustificabile?

Ci ho ovviamente ripensato dopo aver letto che Alfredo Cospito avrebbe scritto di non voler essere nutrito artificialmente. Cioè non vuole essere legato a una sedia e avere qualcuno che gli ficca un tubo nel naso o in gola, oppure non vuole essere legato a un lettino, sedato e sottoposto a un intervento chirurgico per mettergli una Peg, che è una specie di tubicino per farti arrivare la nutrizione direttamente nello stomaco. Che questo possa accadere non dopo una sedazione ma in caso di perdita di conoscenza di Cospito non cambia la domanda morale e quella normativa: sarebbe giusto e dovremmo obbligarlo? Perché la trappola si annida nel momento in cui Cospito potrebbe perdere la capacità di rifiutare, ora per ora, di mangiare. Che è la stessa trappola di quando si rifiuta un trattamento sanitario – mettiamo un massaggio cardiaco – e poi quando il tuo cuore si ferma un medico ben intenzionato ti massaggia e un altro arriva col defibrillatore. È giusto moralmente e dovremmo obbligare chi non vuole?

È una domanda che vale per tutti se siamo d’accordo che i detenuti mantengano alcuni diritti. Non quelli di stare in giro e di uscire, ma alcuni diritti fondamentali e che riguardano soltanto la loro vita e la loro salute. Cospito, ormai lo sanno tutti, rifiuta di mangiare da moltissimi giorni per delle ragioni che non sono rilevanti per rispondere a quelle domande. Possiamo non essere d’accordo né con le sue giustificazioni, né con la sua decisione, possiamo perfino ignorare le ragioni per le quali ha deciso di non mangiare più e per cui è detenuto. Perché le domande importanti sono altre: è capace di capire le conseguenze delle sue decisioni, cioè è in grado di intendere e di volere, e la sua decisione è davvero la sua? Se rispondiamo di sì, sarà difficile non rispettare la sua volontà. E sarebbe ripugnante aggirarla quando non sarà più cosciente.

Sarebbe anche normativamente rischioso? Perché se è vero che la legge sulle disposizioni anticipate ci permette di allungare la nostra volontà al tempo in cui non saremo in grado di esprimerla, è anche vero che nella legge c’è scritto che «il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».

Sul fatto che la nutrizione (forzata) migliorerebbe la condizione di Cospito – non facendolo morire – non ci sono molti dubbi. Proprio come una trasfusione di sangue. Ma, di nuovo, la domanda non è questa e chissà se può diventare una giustificazione. Se rispetto la tua volontà muori, se non la rispetto vivi. Quindi?

Non è il primo caso di sciopero della fame in un carcere e già avrete pensato a Bobby Sands, che l’ultimo giorno del suo diario scrive “hanno provato a darmi del cibo, me l’hanno messo davanti e io ho continuato a comportarmi come se nessuno fosse lì”. E ci sarebbero tante leggi e tanti altri casi di cui parlare. Ma ne voglio nominare solo due. Il primo è il caso Yakovlyev v. Ukraine (la sentenza della Corte di Strasburgo è dello scorso 8 dicembre) e in particolare come Andriy Gennadiyovych Yakovlyev descrive la “procedura”: è stato ammanettato con le mani dietro alla schiena e tenuto fermo da molti agenti di custodia; uno di loro gli ha infilato a forza un tubo in gola facendogli male e facendolo soffocare; la procedura è durata dai 30 ai 90 minuti.

Il secondo è l’articolo 8 della dichiarazione di Tokyo, cioè le linee guida per i medici riguardo alla tortura e altri trattamenti degradanti di persone imprigionate o detenute: quando un detenuto rifiuta di mangiare ed è capace di capire le conseguenze di quel rifiuto, non deve essere nutrito a forza.

Pensiamo davvero di svicolare da questo obbligo nel momento in cui quella persona non è più in grado di esprimere un rifiuto attuale (ma lo ha detto e lo ha scritto)? Dovremmo almeno ammettere che non lo stiamo facendo per lui.