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C’è qualcosa di distopico nell’uragano di polemiche provocato dallo spot della “pesca” di Esselunga, qualcosa che racconta e fotografa la nostra società, la qualità del suo dibattito pubblico, dei suoi riferimenti culturali.
Dividersi con toni così feroci e apocalittici su un piccolo filmato commerciale che utilizza la patina emotional di una bambina figlia di genitori separati come espediente narrativo, e il cui scopo è soltanto quello di vendere ortaggi, carni, detersivi e altri articoli, più che il segno di una collettività vigile e impegnata sembra una forma di nevrosi collettiva. Paladini della famiglia tradizionale contro difensori della famiglia moderna, psicologi dell’infanzia contro femministe, sociologi contro prelati, tutti che si azzuffano nell’esasperata e inutile esegesi di uno spot. Di sicuro gli indignati e i rabbiosi, coloro che accusano la Esselunga di veicolare un messaggio retrivo e di vittimizzazione secondaria della coppia separata fa una figura peggiore di chi, al contrario, ne ha apprezzato la “sensibilità” e la “delicatezza”, ma si tratta di dettagli perché il problema di fondo sta nel cercare un messaggio che non c’è.
Queste polemiche giustamente trovano piena cittadinanza e risonanza nel ring che più di tutti ne è diventato l’emblema: i social network. Il mezzo è il messaggio diceva oltre mezzo secolo fa Marshall McLhuan, con l’irruzione dei social la fusione è diventata totale. Tutta la nostra comunicazione è oggi scandita dalle quelle logiche mitomani, dall’indignazione pavloviana, dall’opinionismo diffuso, lo stesso stile letterario con cui ci esprimiamo pubblicamente è figlio di quel medium. Ognuno con il suo format: i cinquanta, sessantenni sul prolisso Facebook che ormai sembra una casa si cura per vecchi rancorosi e sconfitti dalla vita; i più giovani attraverso la brevità dello storie Istagram e dei reels di Tiktok. Entrambi intrappolati nella stessa realtà virtuale che invade e allaga anche il mondo delle cose e delle persone in carne e ossa.
Che anche la premier Giorgia Meloni si sia poi sentita autorizzata a dire a sua sulla questione -per lei lo spot sarebbe «bello e toccante» - non può che chiudere mestamente il cerchio. Come è possibile che la reclame di un supermercato possa generare una simile contrapposizione?
Un tempo non troppo lontano si discuteva e ci si divideva sulle opere degli artisti, dei registi, dei romanzieri, dei cantautori, degli intellettuali omnibus; oggi quel ruolo è interpretato dai creativi delle agenzie pubblicitarie, dai draghi del marketing. I quali, bisogna sottolinearlo, non hanno alcuna colpa; la responsabilità semmai ce l’hanno gli altri, chi non riesce più a concepire e realizzare film, libri, album musicali capaci di suscitare dibattito.
Quando nell’immediato dopoguerra Vittorio De Sica realizzò Ladri di biciclette mostrando la miseria sociale in cui versava il nostro paese, la commissione censura presieduta da un giovane Giulio Andreotti provò a bloccare il film, spiegando che parlava di «cenci e di stracci», i quali per abitudine «si lavano in famiglia». La discussione fu accesa ma e alla fine i moralizzatori persero su tutta la linea e il neorealismo sbocciò nel suo splendore. Si litigava spesso sulla letteratura, ad esempio su Lolita, il perturbante capolavoro di Nabokov, accusato addirittura di giustificare la pedofilia, sui Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini con l’autore accusato di pornografia e censurato per «oscenità». Anche il compianto Pier Vittorio Tondelli finì nel mirino della procura per il suo Altri Libertini che venne sequestrato in quanto «blasfemo». E che dire del film di Bernardo Bertolucci Ultimo Tango a Parigi letteralmente condannato al rogo nel 1976 sempre per oscenità?
Per rimanere tema del divorzio e delle sue conseguenze sui figli il lungometraggio Kramer contro Kramer (1979) oltre a vincere cinque oscar suscitò grandi discussioni (ma poche polemiche) e allo stesso tempo illuminò con realismo la difficile condizione dei genitori separati. Quando la nostra vita era accompagnata da grandi film e grandi romanzi, mai una pubblicità di una catena di supermercati avrebbe ricevuto tanta attenzione mediatica.
A difesa dello spot di Esselunga c’è da dire che è stato realizzato e recitato molto meglio del 90% dei film italiani, ma questo non fa che confermare l’assunto di fondo.