Nel confronto in atto tra politici e studiosi sul presidenzialismo e sul cd. premierato, un tema è sin qui rimasto relativamente in ombra: l’incidenza di queste diverse prospettive riformatrici sul giudiziario.

(...) I tratti della forma di governo presidenziale e del sistema politico semipresidenziale sono troppo noti per dover essere qui analiticamente ricordati. Così come sono note le differenze, a volte profondissime, ravvisabili tra le numerose varianti di questi modelli.

Basterà ricordare che negli Stati Uniti e in Francia – i cui regimi rappresentano gli archetipi del presidenzialismo e del semipresidenzialismo – il Presidente è espresso direttamente dal corpo elettorale e da tale investitura popolare trae forza e legittimazione per l’esercizio di funzioni di governo e di indirizzo politico.

Il passaggio, nel nostro Paese, a un regime presidenziale o semipresidenziale – contrassegnati entrambi dall’elezione diretta alla carica presidenziale – implicherebbe per il Presidente della Repubblica l’assunzione di un ruolo fortemente e direttamente politico e la contestuale cancellazione dei tratti che oggi caratterizzano la sua figura: l’indipendenza dall’indirizzo della maggioranza politica; il ruolo di potere autonomo, non riconducibile all’esecutivo, al legislativo e al giudiziario; l’attitudine a realizzare, grazie alla pluralità delle sue funzioni e a una costante azione di moral suasion, un efficace raccordo tra i diversi poteri.

(…) In definitiva, il Presidente non è ritenuto estraneo alla determinazione dell’indirizzo politico, ma la sua “cooperazione” a tale indirizzo si esprime solo in forma di influenza indiretta e di garanzia del suo regolare svolgimento e non è in alcun modo assimilabile al ruolo politico forte che deriverebbe da un’elezione diretta.

È perciò evidente che l’attrazione del Presidente della Repubblica nell’agone politico e il radicale mutamento della sua fisionomia istituzionale avrebbero immediate ricadute sui poteri che attualmente la Carta costituzionale gli attribuisce nell’area del giudiziario: la presidenza del Csm, la nomina di cinque membri della Corte costituzionale, il potere di grazia.

L’autonomia del Consiglio superiore dagli organi di indirizzo politico della maggioranza è attualmente garantita e rafforzata dalla presidenza di un capo dello Stato a sua volta indipendente dall’indirizzo politico di maggioranza. La prima, inevitabile ricaduta sul giudiziario dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica sarebbe perciò una sostanziale incompatibilità con il ruolo di presidente del Csm, determinata dall’esigenza di preservare la separazione dei poteri e di non compromettere l’indipendenza del Consiglio superiore. E infatti, nella proposta di legge costituzionale sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, presentata nella scorsa legislatura dal partito Fratelli d’Italia, divenuto partito di maggioranza relativa nelle elezioni del 2022, era previsto che la carica di presidente del Csm non fosse più ricoperta dal Presidente della Repubblica, ma assunta dal primo presidente della Corte di cassazione.

Soluzione, questa, che segnerebbe una evidente deminutio dell’organo di governo autonomo, privato della guida della prima carica dello Stato e della incisiva garanzia rappresentata dalla sua presidenza.

Alla mirabile architettura costituzionale, che mira ad assicurare, anche attraverso la presidenza del capo dello Stato, il massimo livello di indipendenza e prestigio dell’istituzione consiliare, si sostituirebbe un impianto istituzionale inevitabilmente più modesto, più ripiegato su se stesso, connotato da una impronta corporativa.

Una scelta che può essere ritenuta valida solo da quanti auspicano una riduzione del ruolo e del raggio di azione dell’organo di governo autonomo e una complessiva svalutazione del Consiglio e dell’attività da esso svolta.

Per comprendere la posta in gioco, è utile rievocare il confronto che si svolse nell’Assemblea costituente sulla composizione e sulla presidenza del Consiglio superiore, nel quale si fronteggiarono due posizioni.

La prima, auspicata dai magistrati e dai più rigidi sostenitori della divisione dei poteri, immaginava un Consiglio composto solo da magistrati.

La seconda – consapevole dei rischi di una magistratura “separata e irresponsabile”, “casta chiusa e intangibile”, “Stato nello Stato” – propugnava un Consiglio composto in maniera paritetica di laici e togati. Nell’art. 97 del progetto originario di Costituzione era prevista una composizione paritaria di membri laici e di membri togati, con l’attribuzione del ruolo di vicepresidente al primo presidente della Corte di cassazione.

Nel contrasto tra tali posizioni, fu accolto l’emendamento proposto dall’On. Scalfaro, che prevedeva un Consiglio composto per due terzi da membri togati e per un terzo da membri laici, e si optò inoltre per il conferimento della presidenza al capo dello Stato per le esigenze di simmetria istituzionale evocate dall’On. Leone e per evitare che il Consiglio rischiasse di divenire, come sostenne Calamandrei, una specie di «cometa» che potesse «uscire per conto suo dall’orbita costituzionale».

Dover rinunciare, per il Csm, alla presidenza del capo dello Stato, cioè alla soluzione voluta dai costituenti per scongiurare il corporativismo e l’autoreferenzialità della magistratura e del suo organo di governo autonomo, sarebbe dunque un ritorno indietro rispetto al compromesso alto raggiunto in seno alla Costituente, e il segno di una anacronistica regressione corporativa di cui non si sente il bisogno.

La sapiente distribuzione, in Costituzione, del potere di nomina dei quindici giudici della Corte tra Parlamento, magistrature superiori e Presidente della Repubblica mira a garantire un livello elevato di competenza tecnico-giuridica, l’indipendenza e l’imparzialità nonché la varietà di sensibilità e di culture dei componenti della Corte.

Per quanto riguarda i membri di nomina parlamentare, più diretta espressione della politica, la necessità di maggioranze qualificate per l’elezione preclude, di regola, che la nomina avvenga da parte della sola maggioranza e impone il raggiungimento, in seno alle assemblee rappresentative, di un più ampio consenso.

A sua volta, il potere del Presidente della Repubblica di nominare cinque giudici costituzionali è stato concepito come uno strumento per integrare ed equilibrare la composizione della Corte in modo da assicurare il bene prezioso del pluralismo ideale e culturale. (...)

Difficilmente il compito di misura e di equilibrio assegnato al Presidente dal Costituente potrebbe essere assolto da un Presidente della Repubblica che avesse ricevuto l’investitura da parte della maggioranza del corpo elettorale e avesse, perciò, assunto una diretta funzione politica.

Al contrario, sarebbe forte la tendenza della maggioranza e del Presidente elettivo di “annettersi”, insieme al maggior numero dei membri di nomina parlamentare, anche i giudici di nomina presidenziale, alterando così la fisionomia della Corte voluta dal Costituente e trasponendo in seno alla Consulta i rapporti di forza politica esistenti nella società in un dato momento storico.

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