Rino Formica, nato poco meno di due anni dopo Giorgio Napolitano, ne ha saputo confermare e spiegare con simpatica arguzia il «comunismo liberale» attribuito anche qui, sul Dubbio, come un felice ossimoro allo scomparso presidente emerito della Repubblica fra tante, troppe ironie di un giornalismo a dir poco superficiale e disinformato. Un giornalismo che - secondo le circostanze insegue, precede e scopiazza la politica peggiore, fatta non di passione e di analisi ma di odio, non di testa ma di pancia.

In particolare, intervistato da Repubblica, Formica ha ricordato la prima passione, appunto, di Napolitano. Che non fu la politica ma il teatro, di cui si occupò nei gruppi universitari fascisti ai quali il solito Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano ha cercato di inchiodarlo raccontandone a suo modo la storia di “peggiorista”. Che ha sarcasticamente sovrapposta a quella del comunista “migliorista” appartenutagli per tanti anni dopo la frequentazione di Giorgio Amendola: un altro dirigente del Pci di cultura e famiglia più liberale che marxista.

«Il teatro - ha spiegato Formica- è quel luogo nel quale l’irreale viene rappresentato come reale». Nel quale «dopo la svolta badogliana di Togliatti nel 1944… il comunismo liberale dev’essere apparso» al Napolitano ancora diciannovenne «un colpo di teatro», appunto: «un’utopia irrealizzabile ma di una purezza angelica». «Una volta morto il comunismo - ha detto Formica saltando un bel po’ di anni e forse esagerando, cioè ritardando un po’ l’evoluzione di Napolitano - è quell’altra idea, la liberale, che gli consente di proseguire il cammino nelle istituzioni», sino a scalarle quasi tutte: presidenza della Camera, ministero dell’Interno e Presidenza della Repubblica, senza passare per la presidenza del Consiglio, diventata invece il capolinea di Massimo D’Alema nel percorso post- comunista.

Eppure Formica - come lui stesso racconta nella sua bella intervista a Repubblica aveva avuto l’occasione di provare e condividere da capogruppo socialista alla Camera, durante il governo pentapartito di Craxi, un centrosinistra esteso ai liberali, la vera stoffa dell’abito, in tutti i sensi, del suo omologo comunista. Che era proprio Napolitano.

«I rapporti tra Berlinguer e Craxi- racconta Formica erano molto tesi. Napolitano era per un’opposizione non pregiudiziale, in ciò sostenuto da Nilde Iotti». Che - mi permetto di aggiungere da presidente della Camera, praticamente rimproverata in una riunione della direzione del Pci da Berlinguer di non avere fatto tutto quello che il regolamento le avrebbe permesso contro i tagli alla scala mobile dei salari, effettuato dal governo con decreto legge, interruppe il segretario per intimargli il rispetto delle istituzioni, a cominciare da quella che lei impersonava con la carica che ricopriva.

Napolitano da capogruppo comunista chiamato con una certa perfidia politica dal segretario del partito a praticare in sostanza una politica di opposizione pregiudiziale dalla quale sapeva che l’interessato dissentiva, «come se la cavò?», ha chiesto l’intervistatore Concetto Vecchio. «Con sofferenza», ha risposto Formica aggiungendo e spiegando: «Avvertiva il peso dell’incomprensione perché era l’uomo del dialogo tra le forze dell’antifascismo costituzionale. Si stabilì fra noi un’intesa che è rimasta sino alla fine», senza quindi aspettare la caduta del comunismo col muro di Berlino, sei anni dopo.

Senza arrivare alla «perfidia politica» da me attribuita alla buonanima di Berlinguer nel fare arrivare Napolitano a capogruppo della Camera per condurre una politica non condivisa, l’intervistatore ha chiesto a Fornica se e come fosse «ammesso il dissenso nel Pci». E Fornica ha risposto, questa volta buttandola lui in teatro e quasi rimpiangendo tempi per niente commendevoli, pur se per certi versi ancora migliori dei nostri, per carità: «I partiti allora erano delle vere fucine di pensiero. Si discuteva moltissimo, con un senso di religiosità, mi verrebbe da dire».

Quei partiti tuttavia crollarono tutti alla prima incursione esterna, con quella che Napolitano al Quirinale definì, nella famosa lettera alla vedova di Craxi nel decimo anniversario della morte del leader socialista in terra tunisina, «il brusco cambiamento dei rapporti» fra politica e magistratura cui gli era toccato di assistere, impotente, da presidente della Camera. E che la sinistra aveva assecondato suicidandosi, come dimostra il governo neppure di centrodestra ma di destra-centro in carica da quasi un anno nella realistica prospettiva di durare sino alla fine ordinaria di questa legislatura, come si è vantata la premier Giorgia Meloni celebrando il primo anniversario della sua vittoria elettorale.