È possibile avviare un dibattito pubblico sullo stato della giustizia penale in vista delle elezioni del Parlamento europeo? Se volessimo dare credito agli autori della peggior riforma dell’intera storia repubblicana, i quali per mesi ci hanno spiegato che il processo penale efficientista e il diritto penale etico sono stati imposti dall’Europa e dal Pnrr, il tema dovrebbe essere assolutamente centrale nella discussione politica.

Ma se anche, con maggior realismo, ritenessimo che il rapporto con l’Europa è stato solo l’astuto pretesto nostrano per portare a termine il disegno risalente di controriforma del processo accusatorio entrato il vigore nel 1989, il risultato non cambierebbe.

Comunque siano andate le cose, l’improprio legame istituito dal governo Draghi fra giustizia penale e fondi europei ci costringerà, almeno per i prossimi anni, a negoziare con Bruxelles qualunque intervento sul sistema penale. Del resto, ogni serio tentativo di “riformare la riforma” è stato finora bloccato sul nascere, invocando il totem inscalfibile del Pnrr. In realtà, il piano nazionale di recovery è stato largamente rimaneggiato e alla fine del 2023 la Commissione europea ha accettato le modifiche proposte dal governo italiano. Sono stati emendati molti aspetti qualificanti, ma non il capitolo sulla giustizia che, evidentemente, e a dispetto dei proclami, risulta condiviso anche dall’attuale maggioranza in linea di continuità con la riforma Cartabia.

Appare quindi decisivo sapere quale sarà l’atteggiamento dell’Italia nei prossimi anni. Rimarremo vincolati alla trasformazione ideologica della giustizia penale sul modello assiologico- aziendalista applicato all’imputato oeconomicus oppure proporremo una svolta garantista ispirata a quei valori che sono iscritti anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione?

È difficile credere che una campagna elettorale asfittica e contenutisticamente vuota possa spontaneamente porre al centro del dibattito la giustizia penale. E bisogna anche ammettere che l’imperativo “riformare la riforma”, proclamato dall’avvocatura quale condizione irrinunciabile, si è progressivamente rarefatto, lasciando spazio ad atteggiamenti contrastanti.

Dopo un anno e mezzo di vigenza – tempus fugit – siamo passati dall’astensione dalle udienze alla rassegnata assuefazione. L’efficienza fine a sé stessa, sganciata da valori, forme e garanzie, è infatti una sostanza tossica i cui effetti diminuiscono in seguito a ripetute assunzioni. L’assuefazione per tolleranza appresa è un fenomeno ben noto in farmacologia e spiega perfettamente l’attuale stato di cose: il bersaglio, la difesa con i suoi residui diritti, ha sviluppato meccanismi di compensazione che vanno da comportamenti particolarmente conservativi e prudenti, alla rinuncia all’esercizio di facoltà rese troppo complesse fino alla resa incondizionata e premiata, che era poi l’obiettivo politico- ideologico del riformatore.

Non mancano nemmeno casi, invero sempre più frequenti, in cui dall’assuefazione si è passati a sviluppare la sindrome di Stoccolma, stato psicologico tipico di chi ha subito abusi ripetuti, come è accaduto ai difensori negli ultimi trentacinque anni.

Alcuni penalisti, vittime predestinate dell’efficienza processuale, cominciano a nutrire sentimenti positivi verso i principali artefici del processo neo- inquisitorio. Quei giuristi osservanti del dogma del processo breve e purchessia, spesso magistrati ortodossi, sono oggi invitati d’onore in convegni smaccatamente rivolti al proselitismo.

Nel frattempo, il nuovo corso di Ucpi si è dedicato principalmente all’emergenza carcere determinata dalla degenerazione indegna dell’esecuzione penale in un sistema di trattamenti inumani e degradanti, lasciando però in un cono d’ombra la ferma opposizione inizialmente dichiarata alla riforma del processo penale.

Il carcere inumano è una situazione endemica in Italia, come dimostrano gli oltre dieci anni trascorsi dalla sentenza Torreggiani senza che il problema sia stato avviato a soluzione. Un’emergenza endemica che non deve mettere in secondo piano il problema del perché si entra in carcere.

L’ingiusta pena, l’ingiusta detenzione sono il portato logico e giuridico dell’ingiusto processo e del crepuscolo delle garanzie che si registra nella stagione dell’efficientismo. Appare innegabile, ad esempio, il rapporto diretto che sussiste fra i capziosi limiti imposti alle impugnazioni dei difensori d’ufficio, il passaggio in giudicato di condanne ingiuste e l’esecuzione carceraria di pene, di conseguenza, ingiuste.

Dunque, l’emergenza carcere merita risposte adeguate e immediate, che peraltro la politica difficilmente è disposta a dare nei periodi di campagna elettorale, ma la battaglia a monte deve essere per i valori scolpiti nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Dalla tutela di questi ideali non possiamo mai deflettere, nemmeno nei rapporti con l’Europa.

Rileggete quel libretto arancione e comparatelo alle proposizioni che reggono l’impalcatura ideologica del processo penale efficientista e del diritto penale etico. Nei due testi, da un lato troverete gli ideali di libertà e giustizia che nascono con l’Il-luminismo, dall’altro una distorta visione penitenziale, degna erede del processo canonico per eresia, che traccia le linee di un sistema di procedure sommarie ad alto tasso di inquisitorietà, caratterizzato da un puro decisionismo in cui la residua efficienza repressiva, al netto della premialità, è il portato di un sostanzialismo etico enfatizzato dal sistema di giustizia riparativa.

Stanca assuefazione e strisciante sindrome di Stoccolma non possono trasformarsi nello stato di generalizzata rassegnazione al cinico baratto fra fondi europei e garanzie interne. L’accertamento è oggi ridotto alla fase investigativa nelle mani dell’accusa e sottratta alla partecipazione difensiva. Il dibattimento è stato costruito come una scelta onerosa in termini sia di rinuncia alle lusinghe dei ponti d’oro concessi al nemico che fugge, sia di accettazione di un rischio penale la cui concretezza è direttamente proporzionale alle limitazioni imposte all’oralità, al contraddittorio, all’immediatezza dal peso contestualmente attribuito agli atti di indagine. Una manovra a tenaglia che comprime ogni facoltà difensiva e pone l’imputato dinanzi al dilemma fra la desistenza premiata o la resistenza punita.

La fuga dal processo, inteso quale luogo di cognizione, è anche, se non soprattutto la fuga dalle impugnazioni di cui si coglie solo la durata e non il profondo significato epistemico di garanzie autocorrettive del sistema.

La deprocessualizzazione viene perseguita in parallelo alla incentivata privatizzazione della giustizia penale. Il processo degrada a luogo di negoziazione e di composizione del conflitto interindividuale, ponendo fuori gioco anche l’avvocatura penalistica italiana alla quale viene progressivamente sottratto l’humus processuale di cui si nutre da sempre.

La deriva è accentuata dalle venature morali di un sistema processuale che, sia pure per linee interne, è arrivato a far prevalere l’interesse della vittima su quello dell’imputato, in patente violazione della presunzione d’innocenza, e a postulare una riparazione che è ben diversa dalla rieducazione.

Ebbene, chi ancora professa i valori laici del giusto processo, penso a Ucpi e Cnf, deve farsi al più presto portavoce di una ferma denuncia che scuota il torpore della campagna elettorale per la prossima legislatura europea. Abrogare, con effetto immediato, le più evidenti distorsioni della riforma Cartabia è un dovere di civiltà e di democrazia. Ricordare all’Europa che i diritti dei suoi cittadini non possono essere sacrificati sull’altare dell’efficienza repressiva è un vincolo morale. Spiegare che il processo di durata ragionevole deve essere anzitutto giusto è disvelare una grande ipocrisia.