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Ancora un’inchiesta della procura della Federcalcio, ancora José Mourinho sul banco degli imputati. Rischia una squalifica per «giudizi gravemente lesivi» nei confronti dell’arbitro Matteo Marcenaro, l’ennesima da quando allena la Roma. Aveva detto, alla vigilia di Sassuolo Roma, che gli sembrava un arbitro inadeguato, privo di «stabilità emozionale» e che con lui aveva sempre avuto sfortuna.
L’accanimento giudiziario però non servirà a nulla, come non è servito le altre volte, perché Mou continuerà a parlare, a punzecchiare a provocare, a sparigliare con astuzia e a farlo liberamente, come fosse una sfida intellettuale, senza filtri e protocolli, illuminando di luce riflessa i suoi tanti detrattori perché, ogni parola che dice, ogni dichiarazione che rilascia diventa, irrimediabilmente, una notizia.
E questa sfrontatezza, al paludato sistema del calcio italiano, ultima pomposa propaggine della prima repubblica con il suo perbenismo da notabilato di provincia, le polverose trame di potere e i codici giudiziari forcaioli che puniscono anche il reato d’opinione, fa perdere letteralmente la testa.
A sentire Paolo Casarin, vecchio apparatchik del mondo arbitrale ed ex designatore di categoria sembra si stia parlando di Osama bin Laden, un nemico pubblico da abbattere, uno a cui «la libertà di criticare tirando fuori cose di scarso contenuto non deve essere consentita, questa roba deve essere stroncata».
In Italia gli arbitri sono da sempre entità intoccabili, quasi astratte, protette da un’aura di riservatezza che neanche i giudici della Consulta o i supertestimoni di mafia, figurine separate dalla realtà, a cui è vietato rilasciare interviste e dichiarazioni pubbliche che attengano alle gare dirette e alle loro decisioni o che riguardino la vita associativa nell’Aia, l’immagine di un universo chiuso e autoreferenziale, impenetrabile e impermeabile a qualsiasi critica e a qualsiasi nuovo linguaggio. E legittimato da una stampa servile e moralista che completa l’opera bacchettando chi rompe il giocattolo, chi ribalta la retorica del consenso e del salamelecco.
Gli stessi che si accalcano ad intervistarlo e sgomitano alle sue conferenze stampa, nella speranza di sparare un titolone acchiappa click per poi in redazione colpirlo con l’ipocrisia untuosa della predica.
Figuriamoci come può reagire questo ambiente alle ripetute frecciate dell’allenatore romanista, alle sue intemperanze quando salta dalla panchina e ne dice due al quarto uomo come pervaso dalla trance agonistica, alla sua smania continua di far saltare il banco, di sporcare il quadretto, di irridere gli interlocutori di dominarli nella loro stessa lingua. Lo hanno accusato di populismo sportivo, di narcisismo tossico, di rappresentare un pessimo esempio per i giovani, addirittura di seminare odio e di fomentare la violenza dei tifosi, un ghignante villain della Marvel che vuole distruggere la florida cittadella del pallone, il nemico perfetto per il bolso governo del calcio italiano animato nel migliore dei casi da cafoni che predicano le buone maniere.
Solo contro tutti, uno spartito che il portoghese recita a meraviglia da quando fa questo mestiere, un po’ come il serbo Novak Djokovich che cerca e trova linfa vitale nell’ostilità del pubblico, che si esalta con i fischi del parterre e allora fa le facce, le smorfie, mette in scena uno piscodramma letterario da cui uscirà vincitore in ogni caso, personaggi divisivi ma necessari nella loro aspra contesa con il mondo esterno, che dentro il gesto tecnico e sportivo fanno splendere un’epica individualista, noncuranti di sembrare arroganti e presuntuosi, perché sostenuti da un carisma più granitico delle montagne che seduce anche il nemico.
Con la differenza che Mou non è un uomo veramente solo; dietro di lui i freme e ribolle infatti tutta la Roma romanista che ne ha fatto un vero e proprio idolo, sedotta dallo spirito identitario che trasmette a tutto l’ambiente.
Se Francesco Totti era il figlio prediletto della lupa, uno young pope baciato dal talento, amato e coccolato per oltre vent’anni dal tepore indolente della romanità, José Mourinho da Setubal è un Cesare straniero con alle spalle mille battaglie e mille vittorie, magari non avrà conquistato la Gallia del pallone, ma ha saputo restituire alla tifoseria giallorossa orgoglio e appartenenza: da quando è sbarcato come un messia nella capitale lo stadio Olimpico è completamente sold out e ogni volta che lo speaker annuncia il suo nome i decibel schizzano alle stelle: «Con José per sempre» gridano dalla curva sud alle tribune, un pensiero condiviso dal 95% dei romanisti, pronti venerarlo come un Dio e a difenderlo e a immolarsi per lui come una falange.
In ogni squadra che ha allenato, salvo forse il Tottenham, Mourinho ha sempre lasciato ricordi potenti (chiedere agli interisti) al di là dei trofei vinti ed è abituato a ricevere onori e pubblica ammirazione, ma quel che è successo a Roma trascende ogni dimensione, il fervore collettivo che lo accompagna è riuscito a stupire e a scuotere il cuore anche a uno che in carriera ha vinto 26 titoli tra coppe e campionati, corteggiato dagli emiri sauditi che da anni gli promettono valanghe di milioni. Ci sarà anche un po’ di furbizia, un po’ di ammiccamenti studiati (il famoso “populismo”?), ma il trasporto e la simbiosi di Mourinho con la piazza romanista è davvero totale. Un incastro ideale quello tra l’ego dilatato del tecnico portoghese e il cuore di una città scettica e fatalista ma capace di vivere amori folli e passioni sferzanti, di innamorarsi come nessuno mai. E pazienza se la sua Roma non gioca un calcio da lustrarsi gli occhi, se non è ancora in grado di competere con le migliori d’Italia e d’Europa, se con lui alla guida ha perso tre derby su cinque per quanto poi ha riportato a Roma un trofeo che mancava da 15 anni. Quel che conta va oltre il terreno di gioco, oltre i gol, i punti e le classifiche perché come disse un giorno lui stesso: «Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio».