La sentenza n. 227/2023, con la quale la Consulta ha accolto il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, il Giudice per le indagini preliminari e il Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale, in relazione all’attività di intercettazione che ha coinvolto, nell’ambito di plurime indagini, l’ex senatore Stefano Esposito, impone di ritornare su un tema, già reso caldo dalle recenti rivelazioni dell’ex giudice costituzionale Zanon, aventi ad oggetto la discussione in camera di consiglio che aveva preceduto la pronuncia della sentenza n. 157/2023 sul caso Ferri, inerente ad una vicenda del tutto analoga.

Per effetto dell’accoglimento del conflitto di attribuzione proposto dal Senato, la Corte costituzionale ha annullato, per quanto concerne la posizione di Stefano Esposito, la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, unitamente al decreto che dispone il giudizio nell’ambito dello stesso procedimento.

Già nel luglio scorso, in occasione del deposito della decisione sul caso Renzi (la n. 170/2023), avvenuto a soli sette giorni di distanza dal deposito della sentenza Ferri, i commentatori ebbero a sottolineare il repentino mutamento di indirizzo della Consulta su due conflitti di attribuzione relativi a fattispecie sostanzialmente affini, per le quali veniva applicato un metro difforme.

La sentenza Ferri, peraltro, aveva visto anche l’insolita sostituzione del redattore, prevista dalle norme integrative della Corte nei casi di indisponibilità o per altro motivo che induca la designazione di un giudice diverso dal relatore per la materiale stesura della decisione, elemento, invero, non sfuggito, a suo tempo, agli osservatori più accorti, considerata anche l’immediata concomitanza con la sentenza Renzi, nella quale, invece, relatore e redattore coincidevano regolarmente.

Si tratta di dettagli procedurali destinati a restare il più delle volte sullo sfondo dei commenti della dottrina, in quanto collocati in una sorta di sancta sanctorum cui rimane indifferente di regola la stessa platea degli studiosi, abituati a soffermarsi su altri aspetti più squisitamente giuridici.

Eppure, le dichiarazioni di Zanon, prima, e il successivo irrituale comunicato di replica dell’ufficio stampa della Consulta del 19 dicembre, poi, che invocava la riservatezza dei lavori del collegio, autorizzano a formulare ancora delle brevi riflessioni sul punto, tanto più alla luce della sentenza appena depositata. Colpisce, in particolare, il fatto che il redattore della sentenza Esposito sia lo stesso della sentenza Ferri, che, soltanto cinque mesi fa, perveniva ad esiti radicalmente opposti.

In quell’occasione, la Corte aveva argomentato che l’attività di captazione posta in essere non fosse univocamente diretta ad intercettare anche le comunicazioni del deputato, tenuto conto dell’estraneità di quest’ultimo ai contorni dell’accertamento penale in corso e dell’esiguità delle sue intercettate comunicazioni (in verità, ben ventisette in totale), con conseguente affermazione della natura “occasionale” e “non mirata” delle intercettazioni compiute, non soggette, in quanto tali, all’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza.

Nella sentenza n. 157, la Consulta, sulla base della distinzione tra intercettazioni “indirette” e “causali”, si era spinta, di fatto, ben oltre gli ordinari limiti di un conflitto di attribuzione, fino al punto di operare una vera e propria valutazione sul merito della vicenda, escludendo, sulla base di requisiti abbastanza opinabili (su tutti, il numero delle comunicazioni, come osservato), che l’attività di indagine realizzata fosse in qualche modo rivolta alla sfera delle comunicazioni dell’onorevole Ferri.

Nella sentenza n. 227, invece, facendo leva su una diversa qualificazione dei fatti, nel contesto di circostanze analoghe, la Corte è correttamente giunta ad affermare l’inutilizzabilità delle captazioni acquisite nei confronti del senatore Esposito.

Gli indici utilizzati dalla Consulta (l’abitualità dei rapporti tra il parlamentare e il terzo intercettato, il numero delle conversazioni e la loro prevedibilità), se applicati con i medesimi rigorosi criteri, avrebbero potuto condurre alle stesse conclusioni anche per il caso Ferri, evitando il singolare contrasto giurisprudenziale che si è registrato in pochi mesi.

Da un primo raffronto tra le due decisioni, si evidenzia l’adozione di una diversa sensibilità nella valutazione di situazioni assolutamente assimilabili, ad appena cinque mesi di distanza, con eguale redattore e ben undici giudici in comune nella composizione dei rispettivi collegi.

In particolare, nella sentenza n. 157 si dava conto di informative della Guardia di finanza sin dal marzo 2019, dalle quali si evinceva in maniera inequivocabile la consapevolezza del fatto che l’onorevole Ferri partecipasse alle riunioni nel corso delle quali venivano eseguite le intercettazioni e, ciononostante, in quella sede, le captazioni venivano qualificate come occasionali, ovvero non indirette.

Viceversa, nella sentenza n. 227, proprio la circostanza che, a partire dal 3 agosto 2015, sia emerso con chiarezza che il senatore Esposito fosse oggetto di «spunti investigativi meritevoli di approfondimento» assurge ad indice dell’intervenuto mutamento degli obiettivi dell’attività di indagine, da cui si fa (giustamente, in questo caso) scaturire l’illegittimità dell’acquisizione e dell’utilizzo delle intercettazioni successive a quella data, in quanto avvenuti senza che mai fosse richiesta dall’autorità giudiziaria procedente l’autorizzazione preventiva prescritta dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003.

È opportuno, dunque, tanto più in considerazione degli sviluppi emersi negli ultimi giorni e delle contraddizioni poc’anzi illustrate, che il dibattito intorno a vicende, solo all’apparenza settoriali e distanti dall’opinione pubblica, come quella appena descritta, anche grazie all’attenzione meritoriamente dedicata all’argomento da testate come questa, resti sempre vivo, poiché attiene a questioni cruciali del nostro Stato di diritto, come, ad esempio, un esercizio della funzione parlamentare posto al riparo da illegittime interferenze giudiziarie, a supremo presidio del mandato rappresentativo.

*Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università Telematica Pegaso