«Signori della corte, io dovrei concludere dicendo ho fiducia. Rimbalzo la domanda: avreste fiducia voi? Io vi dico sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io sono innocente! Io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi!».

Erano passati tre lunghi anni dal giorno in cui Enzo Tortora pronunciò il suo grido di dolore davanti ai giudici del tribunale di Napoli. Tre anni di galera, di umiliazioni, di diritti negati. Tre anni dal giorno in cui fu prelevato all’alba da un gruppo di carabinieri e condotto in caserma per rispondere di accuse terribili e inaudite; tre anni, infine, dall’infamia di quella foto con gli schiavettoni ai polsi preparata come si prepara un set cinematografico: una pausa a favore di macchina e la schiera di fotografi a immortalare il “mostro insospettabile”. Fu quella la prova generale di un sistema che di lì in poi divenne prassi consolidata. Di più fu il grande salto nel processo mediatico-giudiziario: la nuova era in cui giustizia e stampa siglarono un patto d’acciaio che cambiò per sempre i connotati del processo penale.

Col caso di Enzo Tortora la magistratura italiana ruppe definitivamente il filtro che la inchiodava al rispetto, almeno formale, delle regole del “giusto processo”. Col nuovo processo, mediatico-penale l’indagato è il colpevole certo, il pm è identificato col giudice e l’avvocato è presentato come una sorta di fiancheggiatore il cui unico scopo, come direbbe qualcuno, è quello di aiutare il “colpevole” a farla franca. La caratteristica del processo mediatico del resto è proprio quella di zittire la difesa e far strame dei diritti dell’indagato.

Ecco, il caso Tortora è il nostro caso Dreyfus, è una cicatrice che la nostra giustizia cerca di celare ma che in questi anni ha reso ancora più profonda. Per questo, noi del Dubbio, abbiamo deciso di pubblicare le bellissime Lettere a Francesca che Tortora inviò in quei giorni drammatici alla sua compagna Francesca Scopelliti, il cui coraggio e la cui dedizione alla causa di Enzo Tortora, e di tutti i Tortora italiani, è semplicemente commovente.

Lettere a Francesca è un dono che Enzo, e Francesca naturalmente, hanno consegnato a noi tutti. Leggendo le sue parole, la sua disperazione, ma anche al tenerezza con cui spesso si rivolge alla donna che amava, Tortora per un attimo sembra assumere i tratti di Aldo Moro; il Moro che scrive alla moglie Eleonora, la sua «dolcissima Noretta», e alla quale affida, nella lettera più struggente, il suo commiato dagli affetti più cari: «Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani».

Un paragone che potrebbe apparire avventato quello tra Moro e Tortora, forse addirittura “eretico”. Eppure non v’è dubbio che nelle lettere dello statista prigioniero di una banda di terroristi e quelle del presentatore finito nelle mani del nostro sistema giudiziario, c’è un filo rosso, un “lamento” comune che riecheggia lo stesso dramma. Di certo, in entrambi i casi, c’è l’ottusa ferocia di uno Stato che in quei momenti presentò il suo volto più insensato e spietato.