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D'Alema
In fondo che volete che siano 30 anni? E’ un batter d’ali se consideriamo che Santa Romana Chiesa ha atteso 4 secoli e mezzo prima di riabilitare (ma solo in parte) il povero Giordano Bruno. Trent’anni, dicevamo, il tempo (quasi) esatto per ammettere che sì: forse i giudici hanno un tantino esagerato con Silvio; forse hanno calcato la mano. Lo ha detto a mezza bocca Massimo D’Alema e lo ha fatto dopo 30 anni di “attenzioni” giudiziarie: “L’indebolimento del sistema dei partiti - ha spiegato ieri al Corsera - ha lasciato campo a una crescita del potere politico della magistratura che si è arrogata il compito di fare qualcosa di più che perseguire i reati, come per esempio vigilare sull’etica pubblica e promuovere il ricambio della classe dirigente”.
Certo, qualche maligno ora dirà che la riabilitazione del Cav da parte di D'alema arriva solo post mortem e, soprattutto, dopo l’indagine sul presunto “traffico” d’armi con la Colombia che lo coinvolgerebbe. Ma sono solo malignità. Di più: tentativi di buttarla in caciara. Perché il punto da contestare a D'Alema non è certo un’indagine che, almeno per chi scrive, finirà in un nulla di fatto. La cosa che proprio non torna è un'altra: è la rara abilità con la quale D’Alema schiva la responsabilità, sua e del Pds, sulla sbandata politica di alcune procure che ha determinato la desertificazione di un intero sistema partitico. D’Alema non può certo pensare di cavarsela buttando la croce addosso alle toghe.
D’Alema deve dirci dov’era il suo Pds quando quella mattanza politica si consumava. E la risposta è fin troppo facile: era al fianco di quei magistrati. La mutazione antropologica della sinistra è avvenuta proprio in quei mesi, in quelle settimane, in quei giorni. E ripercorrere quella storia non serve solo a riabilitare il Cavaliere, serve soprattutto a capire cosa è rimasto della sinistra.