PHOTO
Quasi quattro anni fa la Corte costituzionale ha stabilito le condizioni in cui il suicidio assistito non è più un reato, un reato deciso in un momento storico molto diverso da oggi: erano gli anni Trenta ed era precedente ai principi costituzionali di libertà e di autodeterminazione. Quella sentenza 242, la cosiddetta sentenza Cappato, non ha però stabilito i tempi per verificare quelle condizioni (d’altra parte la Corte rispondeva a un caso già avvenuto, la morte di Fabiano Antoniani). Quindi che cosa succede? Che spesso chi deve rispondere non lo fa, rimandando e rimandando la garanzia di un diritto e di fatto vanificandolo. È successo a Federico Carboni. È successo a Fabio Ridolfi. Succederà sempre se non saranno stabiliti dei tempi massimi entro i quali si devono verificare le condizioni delle persone che chiedono di poter morire: essere capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, soffrire di una malattia irreversibile e cha comporta sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili per la persona che ne è affetta, avere un trattamento di sostegno vitale (su questo torno dopo). Quella verifica, poi, non implica il ricorso al suicidio, ma solo la possibilità di farlo. E questa possibilità ha un effetto calmante, o almeno non aggiunge alla condizione patologica l’ansia di non poter scegliere.
Quattro giorni fa il tribunale di Trieste ha obbligato l’azienda sanitaria regionale ad accertare se “Anna” ha le condizioni per accedere al suicidio assistito. Erano 215 giorni che la donna, malata di sclerosi multipla, aspettava una risposta. 215 giorni durante i quali nessuno ha pensato che fosse importante rispondere a una persona che vive in una condizione di sofferenza e di sempre minore autonomia, che vive una esistenza che per lei non è più tollerabile, e allora ha fatto ricorso. 215 giorni sono circa 7 mesi di distrazione istituzionale.
Copio una parte riportata dalla ordinanza che spesso non vogliamo sapere e vedere, perché è più facile parlare di principi e non di copri malati.
“La malattia da cui è affetta [‘Anna’], si afferma nel ricorso introduttivo, l’ha posta in una condizione di non autosufficienza nell’espletamento delle attività basilari della vita quotidiana, per cui necessita della costante assistenza che le viene fornita da una badante, assunta con contratto di sedici ore settimanali, oltre che dalla madre e dalla sorella della ricorrente. In particolare, ad oggi, [‘Anna’] riesce a masticare autonomamente il cibo, ma ha necessità di essere imboccata in quanto la patologia da cui è affetta le rende impossibile stringere con forza le mani ed effettuare in generale movimenti che richiedano una certa forza negli arti superiori, soprattutto del lato sinistro. Inoltre, la ricorrente non ha alcuno stimolo alla minzione e necessita, quindi, dell’utilizzo costante e quotidiano di presidi per l’incontinenza. Per poter evacuare le feci deve effettuare, ogni mattina, due microclismi. Sebbene non abbia problemi respiratori, durante le ore notturne e i riposi diurni utilizza un ventilatore meccanico per facilitare la respirazione. [‘Anna’] è reattiva e presente durante le conversazioni, risponde in modo confacente alle domande che le vengono poste e riesce a mantenere una conversazione con i suoi interlocutori, nei limiti delle possibilità ad esprimersi con più o meno forza, anche in relazione alla stanchezza e all’intensità del dolore accusati nella singola giornata di riferimento”.
La richiesta di “Anna” è stata ignorata e così un mese fa c’è stata una prima udienza. Rappresentata dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio legale di difesa, la domanda è stata rivolta a un giudice. E finalmente quel giudice ha risposto che “Anna” ha quel diritto e che di conseguenza l’azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina ha il dovere di verificare che le sue condizioni rientrino nel dominio di depenalizzazione stabilito dalla Corte nel 2019.
Dovrà farlo entro 30 giorni (“tenuto conto dell’urgenza data dalla gravità della situazione che coinvolge diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati”) e se continuerà a rimandare, dovrà pagare 500 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo.
È una decisione importantissima. Non solo per “Anna”, ma perché evidenzia uno dei difetti della sentenza 242 cui si dovrebbe rimediare. L’altro è il requisito del sostegno vitale se inteso in senso restrittivo come sostegno meccanico e non in un senso più ampio come assistenza o terapia farmacologica.
C’è un altro particolare surreale in questa storia: come è stato chiarito nel ricorso, il parere del comitato etico è successivo alla verifica dei requisiti e deve anche indicare il tipo di farmaco da usare e le modalità di somministrazione. Non è chiaro perché l’azienda regionale lo abbia chiesto prima di – o invece di – fare il suo dovere.
Intanto “Anna” aspetta da 245 giorni che qualcuno le risponda (i 215 fino al ricorso più questo altro mese).