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Sono solo alcune tappe di un agghiacciante “giro d’Italia” dei suicidi, avvenuti negli istituti penitenziari italiani dall’inizio del 2023. Una lunga e inarrestabile scia di morte che inchioda i nostri decisori politici alle loro responsabilità, per una duratura emergenza colpevolmente ignorata. Colpisce il fatto che negli ultimi mesi, tre donne, tutte ristrette presso il carcere di Torino, abbiano deciso di togliersi la vita.
Proprio in quella sezione femminile che ha visto “Le ragazze di Torino” – così, negli ultimi tempi, si firmano le detenute nei loro documenti – animare numerose iniziative, appelli e lettere ai massimi rappresentanti delle istituzioni per chiedere, con forza, segnali di un cambiamento radicale del sistema carcere. Addirittura, una di esse – una ragazza nigeriana di 43 anni, classificata burocraticamente “morta per causa naturali” quasi a voler allontanare ogni sospetto di responsabilità umane – si è lasciata morire, sin dal 22 luglio, di fame e di sete, nell’inerzia e nel silenzio generale.
Il Ministro Nordio non ha lasciato passare un solo giorno, recandosi di persona a Torino, manifestando, in conferenza stampa, la vicinanza e la solidarietà ai soli operatori penitenziari nonché l’impegno politico per interventi di ristrutturazione delle caserme in disuso da adibire a luoghi di detenzione differenziata. La solita ricetta, oramai stantìa, propinata da ogni governo succedutosi negli ultimi decenni. Una “non-soluzione” di lungo termine forse utile per allentare la pressione dell’opinione pubblica, ma non certo per alleviare le tensioni che si percepiscono negli istituti penitenziari.
Ristrutturare caserme in disuso, se mai realizzato, potrà produrre, alla meglio e molto alla lunga, frutti positivi se accompagnato da investimenti in risorse economiche e soprattutto umane. In mancanza, rimarrà la solita minestra peraltro mai cucinata.
Una forma di disinteresse nonostante le drammatiche condizioni davvero intollerabili in cui si trova la popolazione detentiva destinata, tra misure cautelari ed espiazioni di pene intramurarie, a sforare il tetto dei 60.000 detenuti. Per giunta condita da una singolare citazione storica, sicuramente fuori luogo e nemmeno utile ad acquietare la coscienza collettiva, che, alla fine, “anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate” benché controllate a vista.
Il Ministro ci ha tenuto, però, a ribadire che non si è trattato di una visita ispettiva. Peccato – verrebbe da dire – anche perché una ispezione e soprattutto una indagine per verificare quanto avvenuto al carcere di Torino appaiono quanto mai doverose. Troppi sono gli interrogativi che necessitano di trovare adeguate risposte. Sarebbe quanto mai necessario accertare se e chi sia stato informato della decisione tragica di rifiutare il cibo, l’acqua e le medicine. Se siano stati informati l’area sanitaria, il direttore, il magistrato di sorveglianza, il Dap, il suo avvocato e i familiari della detenuta.
In caso positivo, quali siano le misure che ognuno di essi, per le rispettive competenze, abbiano ritenuto di adottare con tempestività per evitare il peggio o, per contro, di non adottarle. Capire chi e perché abbia deciso, eventualmente, di non informarli. Capire come mai e chi abbia deciso di non informare su quanto accadeva il garante nazionale, regionale e comunale, affrettatisi a dichiarare la loro incolpevole ignoranza.
Quale supporto sanitario, psicologico e psichiatrico sia stato disposto ed osservato per una ragazza che da giorni ripeteva, in maniera ossessiva, solo di voler vedere il proprio figlioletto di 4 anni affetto da autismo.
Se ci si è fatti carico delle visite e dei rapporti affettivi tra la madre ed il bambino o se invece ci si è limitati a isolarla nella sezione psichiatrica, senza che vi potesse essere contatto alcuno tra gli stessi. Questi ed altri interrogativi meritano pronte ed adeguate risposte. Si faccia carico, signor Ministro, della necessità di fare chiarezza! E non solo per il caso torinese.
Ancora, signor Ministro, appare oramai ineludibile un pronto ed immediato segnale rivolto a tutta la comunità penitenziaria. Si ripristini l’aumento delle telefonate e video-chiamate, nonché le visite con i familiari, come è avvenuto nel periodo della pandemia. Si proceda all’assunzione di personale specializzato che possa intervenire nei numerosi casi, costantemente in aumento, di problematiche psichiatriche.
Si agisca immediatamente con provvedimenti che possano diminuire il sovraffollamento, primi fra tutti la liberazione anticipata speciale così come è avvenuto con il D.L. 146/2013 all’indomani della sentenza-pilota “Torreggiani ed altri c/ Italia”. Non è più il tempo delle parole in libertà.