“Sussurri e grida - Osservazioni a margine di una riforma (quasi) mancata” è il titolo di un pamphlet elaborato dall’Osservatorio ordinamento giudiziario dell’Unione Camere penali che verrà presentato sabato, durante la seconda e ultima giornata dell’Open Day organizzato come sempre a Rimini dall’Ucpi. Lo scritto si compone di quattro capitoli: 1. “Primissime riflessioni sui decreti delegati nn. 44 e 45 del 2024” in cui si affrontano le modifiche sulle valutazioni di professionalità e sui fuori ruolo; 2. Test psicoattitudinali per i magistrati; 3. Riflessioni comparative tra Italia e agli Stati europei sulla separazione delle carriere; 4. Ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari. Pubblichiamo, di seguito, la postfazione a cura dell’avvocato Giuseppe Belcastro, responsabile dell’Osservatorio.

La volta buona? Un amico – di cui non rivelo il nome per non essere accusato di voler carpire la benevolenza di chi legge – subito dopo la pubblicazione del Ddl Nordio sulla Separazione delle carriere mi ha scritto: “Si legge con una certa emozione”. Sei parole che raccontano molto.

Il Ddl entra senza fronzoli su tre temi cruciali, le carriere, la composizione del Csm e l’organo disciplinare dei magistrati, e lo fa muovendo da solidi presupposti logici e giuridici. Il codice Vassalli – o ciò che ne resta – annaspa da quarant’anni nell’acquitrino della carriera unica che, conforme al modello di processo in vigore all’epoca della promulgazione della Carta, ha invece frizioni vistose e insanabili con il sistema accusatorio che vorremmo. E di fronte alla considerazione – alla portata di un intuito fanciullesco – che chi giudica non dovrebbe avere a che spartire nulla con uno degli antagonisti le cui pretese è chiamato a scrutinare, si agitano da trent’anni fantasmi concettuali, quali la cultura della giurisdizione, o presagi di tregenda, come la subordinazione dell’Accusa al controllo dell’esecutivo, o, infine, salmi lamentosi sulla umiliazione che la riforma imporrebbe alla magistratura.

Quando si prova però a grattare la superficie di questi proclami, si scorge ben poca sostanza. La cultura della giurisdizione non è nulla se non l’insieme dei cardini su cui ruota tutta la vicenda giudiziaria: legalità della prova, inviolabilità delle comunicazioni, sacralità della libertà personale, per dirne alcuni. Ma tali cardini dovrebbero appartenere a tutti gli operatori del processo a prescindere dal ruolo che giocano nell’agone, tanto che qualcuno, non a torto, puntualizza trattarsi più propriamente di cultura della legalità; essi, peraltro, certamente appartengono all’Avvocato, pur distante alquanto dal giudice a cui si rivolge.

La subordinazione all’esecutivo è chimera, dacché il Ddl disegna due distinti Csm dotati di piena autonomia: dove starebbe allora il vulnus, nessuno dice. L’umiliazione, sembra di capire, starebbe poi nelle modalità di individuazione dei componenti dell’organo di autogoverno, presi a caso e non più eletti. Qui bastano le parole di chi ne sa di più per capire che l’obbiettivo non è affatto l’umiliazione della magistratura, quanto quello di “sciogliere il grumo di potere costituito dal sistema correntizio, togliendo ad esso il peso che oggi ha” (Sabino Cassese, intervistato per il Riformista da Aldo Torchiaro, 31.5.2024).

È davvero presto per commentare, ma due riflessioni sono già possibili. La prima è che occorre cautela: la riforma tocca nervi scoperti e causerà, c’è da giurarci, reazioni anche scomposte (le prime avvisaglie lo attestano impietosamente). Dunque, leggiamo il Ddl come un passo, finalmente certo, ma solo il primo di un lungo e impervio sentiero.

La seconda è che, proprio a leggere queste prime reazioni, specie della magistratura, non si riesce ancora oggi a focalizzare quali siano per davvero le ragioni che deporrebbero per una conservazione dello status quo; e visto che sono anni che si prova a farlo, ciò forse vuol dire che di ragioni vere non ve ne sono. Tutto questo ci racconta di quanto ancora sarà difficile la strada. Ma agli avvocati penalisti, si sa, le sfide difficili piacciono; quelle impossibili ancora di più.